Un giorno perfetto | Recensione

UN GIORNO PERFETTO (Italia, 2008) di Ferzan Ozpetek, con Isabella Ferrari, Valerio Mastandrea, Nicole Grimaudo, Federico Costantini, Valerio Binasco, Monica Guerritore, Stefania Sandrelli, Nicole Murgia, Gabriele Paolino, Angela Finocchiaro, Milena Vukotic, Serra Yilmaz. Drammatico. ** ½

Ferzan Ozpetek ama i suoi attori. Un giorno perfetto è tutto un indugiare su primi piani amorosi. Non c’è praticamente scena in cui non compaia un attore. Il regista ha radunato un cast eterogeneo e ricco, abitato da interpreti che meriterebbero più occasioni di passare sul grande schermo (la sempre sbalorditiva Stefania Sandrelli, Monica Guerritore, Milena Vukotic che fa solo una comparsata ma lascia come sempre il segno, Valerio Binasco…).

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Il primo piano sembra avere una valenza essenziale nel cinema ozpetekiano: si serve di questo per indagare nell’animo, o almeno in quegli indizi visibili ed invisibili dell’intimità che traspaiono nel volto. Il suo sguardo cerca di individuare il palese per spiegare l’inconscio, il nascosto. Forse non ha tutti i mezzi necessari, ma sono indubbie la sua sincerità e il suo affetto. E come è presente la sincerità, certamente è ben evidente in Un giorno perfetto la messa in gioco della carriera di Ozpetek.

C’è un elemento che lo fa capire: manca il personaggio omosessuale. E, guarda un po’, nel romanzo di Melania Mazzucco, all’origine del film, il gay c’era, ossia l’insegnante della figlia della protagonista, qui trasformato in una donna (Guerritore). Di conseguenza, viene espunto il rapporto che si instaura nel libro tra il professore e la madre della ragazza, che metteva in discussione l’omosessualità del personaggio. Come mai una scelta così radicale nell’itinerario del regista turco? Probabilmente vuole allontanarsi da un’etichetta. E, dopotutto, non si può vivere di soli Saturno contro.

A proposito, giusto per rimanere in tema, non vi pare che tutte le anime del film abbiano un po’ il succitato pianeta avverso? C’è un sottotesto affascinante, che quindi crea quel necessario punto di contatto tra il passato e il presente. A conti fatti, però, il film della svolta (che sarebbe dovuto essere Cuore sacro, apprezzato da pochi e sbeffeggiato dai più) non c’entra il bersaglio completamente. E il problema forse è nell’eccessiva coralità del racconto.

È una contraddizione, o no? Forse sì – e le responsabilità vanno ascritte alla sceneggiatura del prolifico Sandro Petraglia e del regista – ma era già un problema riscontrato nel precedente film: generoso com’è, Ozpetek tenta di dare voce a troppi, ma inevitabilmente alcuni personaggi risultano o solo abbozzati (Angela Finocchiaro, di cui non si capisce fino in fondo ciò che muove la sua azione eterea), o sfumati e sfocati (Guerritore), o addirittura senza un interesse che veicoli verso di loro (Serra Yilmaz fa una comparsata da gelataia: ok, è il portafortuna del regista, però…).

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Con un titolo abbastanza ironico, il film è il racconto di una mezza dozzina di esperienze umane che, salvo eccezioni, non hanno un inizio né una fine. Sono episodi colti nell’ampiezza di una storia figlia dell’incertezza dei nostri tempi. Ineluttabile film di inizio millennio, c’è una certa angoscia che avvolge il tutto, quasi a voler sottolineare una qualche ostilità dell’autore alla realtà che lo circonda (non scoraggiamento, non fa parte del modo di essere del suo artefice).

D’altronde è indispensabile questa atmosfera cupa, visto il tostissimo soggetto in campo – mi riferisco alla storia cardine, quella a cui girano attorno le altre, ovvero il fallimento del matrimonio di Mastandrea e Ferrari e le relative conseguenze – che cresce a poco a poco fino a raggiungere una vetta di inesplicabile violenza derivante dal solito male oscuro. Ozpetek sa raccontare le storie, e lo sa. Alterna registri diversi: convulso e precipitoso nel filone di Mastandrea-Ferrari, più ovattato ed infelice il segmento Binasco-Grimaudo-Costantini, la nota lieta di Sandrelli, quella più sibillina di Guerritore.

Puntellato dalla musica forse troppo invadente ma efficace di Andrea Guerra, il film si avvale della prova ruggente e ferita di Isabella Ferrari, cui il brutale e malato Valerio Mastandrea regge lo stuolo con bravura, della luminosità di Nicole Grimaudo, moglie del malinconico politico Binasco e matrigna di Federico Costantini, dell’ermeticità della Guerritore. Poi c’è la Sandrelli, che viene da un altro pianeta, con la sua dolcezza infinita, il suo candore disarmante, la sua serenità calcolata.

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Ozpetek dice di aver ridato vita all’Adriana di Io la conoscevo bene, dal momento che nel capolavoro di Antonio Pietrangeli Stefania si buttava dal balcone, incinta. Con le età ci siamo (la Ferrari può essere tranquillamente nata nel 1965), con gli stati d’animo pure. Ora Adriana fa la chiromante, non sa chi sia il padre della figlia («e chi lo conosce!» esclama tranquilla al nipotino che gli chiede del nonno), costruisce l’aquilone per il bambino.

E proprio i bambini potrebbero salvarci da questo mondo sofferente e smarrito, la speranza è proprio rappresentata dai figli di Mastandrea e Ferrari, più maturi dei loro genitori nell’affrontare la vita nelle sue difficoltà. Peccato che, però, anche questi ultimi bagliori di un nuovo orizzonte vengano soppressi nel modo più atroce da persone perse in sé stesse e giunte ad un punto di non ritorno. Anzi, forse c’è qualcosa che si può salvare. O qualcuno.

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