Un prete calabrese va a New York a trovare il fratello emigrato mai conosciuto. Benvoluto e rispettato, si trova talmente bene ché decide di restare. Tutto bene finché scopre che il fratello è un boss mafioso (è Richard Conte, in pieno Padrino-mania). Da una poco rassicurante storia vera: se Steno decise di firmarsi solo qui – e ne La polizia ringrazia – col proprio nome di battesimo, un motivo ci sarà. Probabilmente perché il suo nome d’arte lo associava a troppa commedia, spesso bistrattata.
In effetti, questo Anastasia mio fratello, scritto da Sergio Amidei e addirittura Alberto Bevilacqua, pur partendo da una base brillante se non altro per l’ingombrante presenza di Alberto Sordi (non al meglio), è un dramma anche duro sulle menzogne e sul potere, sulla scalata al successo e sulla paura. Il film, specie nella seconda parte, quando i già pochi sorrisi a denti stretti si diradano, non sempre funziona e lascia perplessi: può il candore di un paesanotto sfidare la ferocia della malavita? Grande disincanto da post commedia all’italiana.
ANASTASIA MIO FRATELLO OVVERO IL PRESUNTO CAPO DELL’ANONIMA ASSASSINI (Italia, 1973) di Stefano Vanzina, con Alberto Sordi, Richard Conte, Luciano Pigozzi, Ugo Carboni, Maria Tedeschi. Commedia drammatico. **