Niente paura | Recensione

NIENTE PAURA (Italia, 2010) di Piergiorgio Gay. Documentario. ** ½

Luciano Ligabue come colonna sonora dei peggiori anni della nostra vita, cioè quelli che vanno dal terrorismo politico (Guido Rossa e la stazione di Bologna) al massacro dello Stato ad opera di Cosa Nostra (Falcone e Borsellino), passando per gli sbarchi dei clandestini al G8 di Genova fino a Rosarno.

A far da prologo, contrappunto e compendio alle varie arie tematiche, ci pensano (nell’ordine) Balliamo sul mondo e Buonanotte all’ItaliaL’amore conta e Sogni di R&RNon è tempo per noi e Una vita di medianoNel tempo e Urlando contro il cielo, fino al gran finale con Sulla mia strada. Non si direbbe un film per i fans, perché l’obiettivo di Gay e Ligabue è ben più ampio: cercare di costruire una identità nazionale non attraverso le canzoni, ma attraverso le sensazioni che suscitano le canzoni di Ligabue.

A parlarne non c’è solo il rocker di Correggio, ma anche i cosiddetti esponenti della società civile (Paolo Rossi, Stefano Rodotà, Carlo Verdone, Luciana Castellina, Umberto Veronesi, Beppino Englaro, Margherita Hack, Roberto Saviano, Fabio Volo, Don Luigi Ciotti, Giovanni Soldini, Javier Zanetti) e gente comune, frequentatori dei concerti del Liga, e a loro modo rappresentanti un piccolo pezzo del Paese (un disabile antipietista, un’immigrata di seconda generazione, una vedova di uno sportivo, una studentessa).

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Il discorso messo in campo è alto, rischioso, al limite della retorica: tutto parte dal fatto che Ligabue proietta nei suoi concerti i primi dodici articoli della Costituzione. E tutto ruota intorno ad un concetto semplice ed essenziale: se ognuno di noi seguisse quei principi fondamentali, dettati più dal buon senso che da altro, si potrebbe avere un Paese più decente di questo? Un Paese che si sente unito e sventola il tricolore solo quando la Nazionale vince i mondiali di calcio.

Benissimo, certo, ma ci devono essere anche altri momenti dedicati alla coltivazione della nostra identità. Il progetto di Ligabue, dunque, che comprende anche il film ma ha una gestazione lunga e laboriosa che si affida soprattutto all’elaborazione personale («a me di una persona non interessano tanto le idee, quanto le sensazioni che mi trasmette quando le espone» dice all’incirca in un passaggio). Avrebbe potuto (auto)celebrarsi con un santino in cui veniva eletto a mito musicale, con testimonianze encomiastiche.

Ha scelto invece una strada più “giusta”, con un sottotesto di umiltà anche curioso («se deve essere un cantante a ricordarci queste cose stiamo messi maluccio») che gli fa onore. Un film civile, certamente ingenuo, più pop(olare) che rock, ma che nonostante l’ottimismo manifesto è in realtà di dilagante e costretto pessimismo.

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