HUGO (HUGO CABRET, U.S.A.-G.B.-Francia, 2011) di Martin Scorsese, con Ben Kinglsey, Asa Butterfield, Sacha Baron Cohen, Chloë Grace Moretz, Ray Winstone, Emily Mortimer, Christopher Lee, Jude Law. Fantastico drammatico. *****
La maggior parte delle persone che conosco ignora chi sia Georges Méliès. Forse avrà visto di sfuggita l’immagine più famosa de Il viaggio alla Luna, su qualche libro di storia, ma in effetti chi sia questo straordinario pioniere del cinema delle origini resta un mistero per loro.
C’è un momento nel film in cui entra in scena il regista, artisticamente caduto in disgrazia e commerciante di giocattoli alla stazione di Parigi. Chi conosce un po’ di storia del cinema lo riconosce subito, e non sarà sorpreso quando l’automa (l’uomo meccanico trovato dal padre del protagonista nello scantinato di un museo), prendendo vita, disegna proprio l’immagine più emblematica del più celebre film di Méliès, comprendendo quindi buona parte della storia raccontata.
Ma il potere della macchina messa su da Scorsese (e prima ancora da Brian Selznick, autore del libro a cui è ispirato il film), vero amante della settima arte nella sua totalità, sta nello stupire (così come Méliès, il cui cinema aveva proprio questo obiettivo semplice quanto artificioso), nell’unire chi già può immaginare lo sviluppo e chi non capisce le connessioni fra il disegno e il cinema delle origini, il giocattolaio e l’automa. Hugo non è solo una evidente festa per gli occhi (e non soltanto il 3D, elemento tecnico più evocativo che funzionale, giusto per sottolineare come certe cose tornino anche a distanza di cent’anni, per quanto con abiti nuovi), è una celebrazione del cinema come evento perturbante dell’immagine (non a caso il film si chiude con una cerimonia ufficiale), è magia allo stato brado (i fogli che esplodono dalla scatola di legno, tanto per fare un esempio) che impressiona sia per quel che dice (una storia puramente fantastica e orgogliosamente incredibile) che per come lo dice (un linguaggio e un immaginario da letteratura dell’infanzia, con plateali omaggi a Dickens, sebbene sia più accostabile a quello filtrato dal cinema, specie degli anni trenta, che a quello effettivo sulla pagina scritta).
C’è chi ne ha messo in luce la sceneggiatura quasi banale priva di approfondimento psicologico, ma è probabilmente in funzione di un ideale pubblico di riferimento, e questo scopo didattico (utopico?) sembra abbastanza palese nel momento in cui scorrono sullo schermo i vecchi film del secolo scorso (e tra uno sguardo eloquente di Buster Keaton, una citazione di Douglas Fairbanks e un manifesto di Chaplin, l’omaggio più affettuoso è per l’Harold Lloyd, il terzo genio della comicità del periodo, di Preferisco l’ascensore, con Hugo sospeso nel vuoto aggrappato alla lancetta dell’orologio), che hanno non soltanto l’obiettivo di contestualizzare, ma anche l’intenzione di formare un nuovo (un altro) pubblico.
Così anche un personaggio sullo sfondo, il libraio di Christopher Lee, è allegorico perché regala un determinato libro ad una persona che percepisce degna di quel libro (Hugo avrà in dono Robin Hood), ricoprendo così il ruolo di educatore dell’anima. E così pure il padre di Hugo, una botta e via di Jude Law, ed anche il padre putativo Méliès (Ben Kingsley). E proprio questa figura, la figura di un padre che istruisca, sta all’origine (in quanto mancanza) è all’origine della gratuità crudeltà dell’ispettore di Sacha Baron Cohen.
Insomma, al di là di una storia non priva di pecche (il lungo e ridondante prologo che crea un’attesa forse non sempre compensata dallo sviluppo della narrazione, qualche pezzo di carne di troppo messo sul fuoco specie nel disegno dei personaggi di contorno), non si può negare a Hugo (che è interpretato da un ragazzino dagli occhi impossibili da dimenticare) un’emozionante esperienza visiva ed umana che cattura con commossa tenerezza, aiutata assai dal reparto tecnico più che mai pertinente (la factory Scorsese al gran completo: Robert Richardson alla brillante fotografia da romanzo per ragazzi, Sandy Powell ai costumi e Thelma Schoonmaker al montaggio, ma grandi lodi alle stratosferiche scenografie di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo e alla splendida colonna sonora di Howard Shore), senza età e senza tempo.
Che poi alla base di tutto c’è proprio questa ossessione per il tempo: il tempo degli orologi da riparare o da mettere in regola (Hugo e il padre), il tempo che sotterra tutto per poi lasciare che riaffiori d’improvviso anche contro il proprio interesse (Méliès e la moglie), il tempo che passa sul tempo lasciando che il tempo faccia il suo corso e renda giustizia al ricordo.
[…] qui ci potrebbe stare una certa assonanza con Hugo Cabret, diretto da un altro ragazzo della Nwe Hollywood: e d’altronde siamo sempre lì, a ridare senso […]
"Mi piace""Mi piace"