Millennium – Uomini che odiano le donne | Recensione

MILLENNIUM – UOMINI CHE ODIANO LE DONNE (THE GIRL WITH THE DRAGON TATOO, U.S.A., 2011) di David Fincher, con Daniel Craig, Rooney Mara, Christopher Plummer, Stellan Skarsgard, Robin Wriht, Steven Berkoff, Joely Richardson. Noir. ****

Quanto importa, a David Fincher, il romanzo all’origine del film? Quanto il suo interesse è effettivamente rivolto a comporre una trilogia secondo la già edita, digerita, adattata opera di Stieg Larsson? È evidente che il punto non risieda nel cosa; la questione è il come. La storia come chiavistello per indagare un’indagine, i legami di sangue e le relazioni pericolose in quanto figure di un affresco cupo, fosco, inquietante sullo sfondo di una Svezia ritrovata in Canada, una finzione tanto svelata quanto davvero nevralgica per capire il senso dell’operazione.

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Appena uscito dallo stritolamento mediatico provocato dalla presunta diffamazione ai danni di un potente uomo d’affari, un famoso e scrupoloso giornalista viene assoldato da un vecchio industriale che gli affida l’incarico di scoprire la verità sulla scomparsa, risalente a quarant’anni prima, dell’allora giovane nipote. Si fa aiutare da un’hacker punk e tormentata, mentre la famiglia del disincantato patriarca se lo ingrazia infidamente…

È chiaro: per poter raccontare il lato oscuro di una nazione storicamente narrata come culla del benessere, Fincher ha bisogno di restare nei territori a lui più conosciuti, ricreando il clima scandinavo lontano dalla mimesi. Sulla scia di Zodiac, trova l’occasione per ragionare in parallelo anche sul rapporto tra il suo Paese e il crimine, la rimozione e il delitto, andando nella profondità di un non-detto che – sembra dire il regista – è spostato in un mondo apparentemente distante da quello americano solo per suggerirne l’analoga capacità perturbante.

E da Zodiac eredita un operante del settore informativo che per qualche motivo è fuori dall’ufficialità editoriale: lì era un vignettista ad improvvisarsi giornalista d’inchiesta, qui è proprio il reporter a dover fare il proprio lavoro ma nella forma lavorativa del detective privato. In questo senso è davvero un omaggio a questo tipo di lavoro, rappresentato senza alcuna esaltazione ma reso curiosamente un personaggio in cui convogliano le caratteristiche del supereroe, lo spirito sacrificale di una vittima, il fascino sgualcito dell’eroe romantico, il cinismo di chi ambisce ad una verità anche dolorosa.

Suggestionati dalla dominante figura di Lisbeth Salander, si è finiti a sottovalutare un po’ Mikael Blomkvist, quasi credendolo soprattutto funzionale allo scioglimento della complessa trama o uno strumento narrativo nelle mani della disperata ferocia di lei. Che, tuttavia, resta personaggio iconico, dal dolore talmente rappreso da sovrastare il film tale è la portata egemonica della sua immagine alterata: un corpo scarnificato ed abusato, l’anima frantumata da troppa crudeltà, la brutalità come moneta con cui ripagare i soprusi di una vita.

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E però pare che le sensuali alchimie relazionali tra i due siano complementari al vero discorso: la violenza glaciale di un sistema corrotto a più livelli (la finanza, l’editoria, l’industria) e che trova nella famiglia l’espressione più perfida, ipocrita, nociva di un male che ha plasmato (ma è un’osmosi) un’intera nazione. La lunga durata sembra quasi venire incontro all’idea di un’opera mai disponibile a concludere il suo discorso, tant’è che sin dagli splendidi titoli di testa si evoca il ricordo di una serie tv.

Ma Millennium. Uomini che odiano le donne è puro cinema, oserei dire perfino classico nell’impostazione teorica, scritto magistralmente da Steven Zaillian e con una cura formale che conferma l’idea collettiva dell’autorialità di Fincher: la fotografia di Jeff Cronenweth, il montaggio di Kirk Baxter e Angus Wall, le musiche di Trent Reznor e Atticus Ross sono i contributi più potenti e determinanti nella costruzione di atmosfere e prospettive, dilatazioni e momenti sincopati, raggiungendo un equilibrio e una tensione davvero spettacolari.

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