Tutto sommato, Pedro Almodóvar fa un cinema classico. La sfida al grottesco, il travalicare il realistico per giocare con l’assurdo. I fattori che utilizza per concretizzare l’operazione sono bizzarri, certo: ma alla fine, tirando le somme, ti accorgi ben presto che si tratta di un cinema legato al passato (ma che guarda al contemporaneo – o, addirittura, al senza tempo).
Almodóvar raggiunse la fama con questo film, che è un po’ la summa del suo modo di concepire lo specifico filmico nella prima parte della sua fulgida parabola. Al solito i titoli di testa si registrano ardenti e curiosi, iconograficamente immersi in un’atmosfera cromaticamente da fotoromanzo, quasi a volersi pigliare in giro direttamente in prima persona, come a voler avvertire il pubblico che il suo è un tocco estrosamente svagato.
La dimensione quasi teatrale che avvolge buona parte dell’opera è un valore aggiunto (la cui breve unità d’azione è, anche essa, funzionale e perfetta), ma non immediatamente riesce ad bagnarti nel fiume scombussolato e nevrotico di questa commedia nera. E, infatti, dopo una prima mezz’oretta discreta, nella quale si abbozzano i ruoli e i caratteri senza definirli (volontariamente), ecco che il film spicca il volo nell’ingresso della travagliata casa di Pepita, La madre dell’assassino, eroina di un serial televisivo grottesco che promoziona un discutibile detersivo che elimina il sangue dalla biancheria.
Il “dove” è importantissimo: è il luogo in cui avviene la contaminazione tra il classicismo intrinseco almodóvariano e la raffinata cultura pop di cui il regista si è cibato e si ciba nel presente. E via allora con gli orecchini a forma di moka del caffè, il taxi ghepardato e a dir poco attrezzatissimo, il frullato di pomodori al sonnifero e così via, Carmen Maura (strepitosa) che cambia gli abiti di continuo.
Sempre più creativo e scatenato, colori che vagano esplosivi e intonati in un universo eccentrico in cui regnano il rosso, il viola, il giallo, l’azzurro, l’altra faccia (beffarda e irriverente) di un Douglas Sirk più rovente e pudico (sarebbe interessante accostare gli usi che Sirk e Almodóvar fanno della fotografia: analogo nella forma ma al contempo speculare negli intenti). Il surreale fa a botte (anzi: sfida a duello) il reale e vince in nome dell’originalità.
Le donne sono viste come esseri indecifrabili, la cui enigmaticità non è capibile agli occhi degli uomini: se questi ultimi appaiono come carnefici dei sentimenti femminili, le figlie di Eva commettono il sottile reato di manifestare la propria subdola fragilità, mascherata di nevrosi. E lo sguardo del regista è indulgente, divertito ed affascinato, e si fa portavoce del pubblico maschile.
E poi: dall’arrivo della madre scellerata a casa di Pepita, il film si fa spassoso e dissacrante, e si permette pure il lusso di scherzare con le pistole. Insomma, divertente e sorprendente, questa commedia brillante e infiammata ha più di un merito per essere annoverata come una delle migliori pellicole del genere realizzate negli ultimi decenni.
DONNE SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI (MUJERES AL BORDE DE UN ATAQUE DE NERVIOS, Spagna, 1988) di Pedro Almodóvar, con Carmen Maura, Antonio Banderas, Julieta Serrano, Rossy de Palma, María Barranco, Kiti Manver, Guillermo Montesinos, Chus Lampreave. Commedia. ****