Noi siamo infinito | Recensione

NOI SIAMO INFINITO (THE PERKS OF BEING A WALLFLOWER, U.S.A., 2012) di Stephen Chobsky, con Logan Lerman, Emma Watson, Ezra Miller, Mae Whitman, Kate Walsh, Dylan McDermott, Joan Cusack. Drammatico. *** ½

Per una volta il titolo scelto dalla distribuzione italiana è bello e pertinente quanto quello originale, che tradotto è suppergiù I vantaggi di fare tappezzeria. Fare tappezzeria sembra il destino inevitabile di Charlie, un adolescente come tanti con qualche malcelato problema psicologico relativo soprattutto alla tragica morte della giovane zia.

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Essendo però un racconto di formazione, il nostro Charlie trova l’occasione per crescere attraverso la conoscenza e la frequentazione di due legatissimi fratellastri, capi carismatici di un piccolo gruppetto di benestanti con tendenze bohémien-rock all’ultimo anno di liceo (“l’isola dei giocattoli difettosi”).

La scoperta dell’amore nei confronti di Sam, l’amicizia con il lieve ma tormentato omosessuale Patrick, una relazione poco convincente con l’agitata Mary Elizabeth e il rapporto con il comprensivo professore di letteratura condurranno Charlie nel terribile mondo dell’adolescenza, facendo riaffiorare i fantasmi di un passato rimosso o accantonato.

La bellezza di Noi siamo infinito non sta tanto nelle sue tematiche, che sono più o meno le stesse (divagazioni e dettagli a parte) dai tempi del Giovane Holden, vero spartiacque nella narrativa del genere, quanto nel tono e nelle modalità di realizzazione dell’opera. Considerando anche il fatto che almeno negli ultimi dieci anni la tendenza intimista di un certo cinema americano e l’allungamento (spesso discutibile) dell’età adolescenziale fino ai trent’anni ha rafforzato ulteriormente il genere producendo svariati film con alterne fortune (L’arte di cavarsela500 giorni insiemeLa mia vita a Garden State), Noi siamo infinito rappresenta una summa e un punto di non ritorno nonostante l’insinuante sensazione di già visto.

Innanzitutto nel racconto di un’epoca (la fine degli anni ottanta) senza le suggestioni stucchevoli tipiche di troppo cinema banalmente nostalgico, mai invadente, sottolineata dalla presenza di canzoni che da solo rendono l’idea del contesto e allo stesso tempo estrapolata dalla sua dimensione temporale per un obiettivo più universale (Il buio oltre la siepe, ad esempio, citato in una delle lezioni a scuola).

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Poi la rappresentazione di sentimenti ed emozioni sempre a metà tra il buffo e il tragico, tra il tormento e l’estasi, perfettamente in linea con i ritmi e le tensioni adolescenziali, forse perché scritti con quella particolarissima sintesi tra distacco, adesione, ironia e sofferenza tipica di coloro appena usciti da quella fase esistenziale (all’origine c’è un romanzo scritto nel 1999 dallo stesso regista).

E c’è una parte specifica del racconto di formazione che riguarda il concetto di trauma, qui legato ad una componente di violenza ed esplorato in un’ottica di scontro e successiva rielaborazione (ma non svelo niente, anche perché l’epifania è fonte di sincera commozione). L’angoscia di non essere considerati, l’impossibilità di salvare tutte le persone care dall’abisso del dolore, la volontà di scrivere per capire e per stare un po’ meglio.

La summa sta in una battuta e in due sequenze: la battuta, ripetuta più volte in varie versioni, è «Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare» (ma possiamo provare a farli capire che meritano di più); le scene sono il memorabile ballo a tre e la traversata del tunnel sulle note di Heroes. Tra i film più belli dell’anno.

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