Prima regia della trentenne Jodie Foster, e non poteva essere più allusiva e simbolica. La bimba prodigio scoppiata con il ruolo impersonato in Taxi driver sceglie una storia che pone al centro un bambino prodigio (suona da dio, fa calcoli assurdi, ha uno spiccato ed innato talento in tutto ciò che fa) alle prese con le circostanze della vita fuori dal proprio mondo interiore.

Storia delicata e mai scontata, ha le sembianze di un biopic ma è soltanto l’esemplare narrazione, alla maniera di un vecchio romanzo francese, di un racconto di formazione infantile sui bisogni primari e sull’educazione di un bambino fuori dalla norma.

Paradossalmente, ha molti più rapporti con Il ragazzo selvaggio di Truffaut di quanto possa sembrare: nonostante lì si tratti di un ragazzo primitivo, ancestrale, senza educazione, opposto al piccolo genio, entrambi hanno lo stesso obiettivo da raggiungere, ed è un obiettivo che riguarda la dimensione sentimentale dell’essere umano, che poco a che fare con quel che si sa. È anche il racconto di una madre disordinata (la stessa Foster, che forse non si dirige al meglio) e di una madre mancata, interpretata da una malinconica Dianne Wiest.

Sarebbe stato interessante approfondire di più questa psicologa determinata e fredda, a cui è mancata una reale educazione sentimentale e che tenta di essere madre attraverso l’educazione dei geni. E, si sa, i geni difficilmente sono educabili. Tendenzialmente potrebbero seguire due strade: diventano dei fenomeni o dei fenomeni da baraccone. Bell’esordio.

IL MIO PICCOLO GENIO (LITTLE MAN TATE, U.S.A., 1911) di Jodie Foster, con Jodie Foster, Dianne Wiest, Adam Hann-Byrd, Harry Connick Jr., David Hyde Pierce. Drammatico. ** ½