Il sogno americano nacque nella notte degli incubi, che fu lunga quanto la depressione di un popolo alle prese col proprio fallimento economico, morale ed esistenziale. La metafora del ballo è quantomeno ovvia, così come ovvia è l’immensa inquietudine che attraversa uno dei film più belli e malati (dimenticati?) della New Hollywood: ballare fino a morire per la possibilità di una vita migliore e subire le ingiustizie di una perversione a cui ci si è sottoposti per necessaria volontà.
La possibilità di una via d’uscita non c’è perché la claustrofobia è una scelta e una condizione per prendere parte al gioco della vita e della morte, al suono di una musica martellante ed infinita, sullo sfondo di una nazione che ha perso la speranza del futuro e si rimette al volere del destino attraverso la resistenza al dolore e alla fatica.
L’importante, nella società dello spettacolo che sta germogliando nella coscienza di un popolo votato alla comunicazione, è che il pubblico pagante si diverta di fronte ai corpi sfiancati e devastati di coloro che concorrono alla vittoria del premio in palio. Ad orchestrare ogni cosa c’è l’ambiguo e cinico Rocky, speaker ed organizzatore di una maratona in cui vince chi sopporta più a lungo il sudore, la stanchezza e la sofferenza: è lui a combinare le coppie, a convincerle a restare o ad abbandonare, a riportarle sulla retta via, a gestirle come marionette in un triste teatrino.
È un ruolo con cui Gig Young vinse un Oscar come miglior attore non protagonista, grazie pure ad una seconda parte in cui almeno in due occasioni è bravissimo (la doccia persuasiva e il dialogo in penombra). È Rocky a manovrare ogni cosa, a declamare l’epica dei caratteri come in un qualunque reality contemporaneo (ci sono il giovane lavoratore, il vecchio militare, la donna perduta, la ragazza sconfitta per eccellenza e così via), a decretare la fine di ognuno di loro, a sottolineare con una sola variazione del tono di voce il mutare degli eventi.
Sydney Pollack dirige con la maestria dei suoi trentacinque anni (con all’attivo lo splendido Questa ragazza è di tutti) un film malato ed imperfetto in cui nonostante i difetti (che risiedono principalmente nel disegno di alcuni caratteri) si resta coinvolti ed affascinati per nervosismo ed ansia, dolore e partecipazione. Jane Fonda si prepara a diventare un’icona sociale, mentre Red Buttons e Susannah York portano a casa due partecipazioni importanti.
NON SI UCCIDONO COSÌ ANCHE I CAVALLI? (THEY SHOOT HORSES, DON’T THEY?, U.S.A., 1969) di Syndey Pollack, con Jane Fonda, Michael Sarrazin, Gig Young, Red Buttons, Susannah York, Bruce Dern. Drammatico. ****
[…] il grande Sydney Pollack, infallibile nello scandagliare il lato oscuro del sogno americano (Non si uccidono così anche i cavalli?, Come eravamo, I tre giorni del Condor) e davanti al suo obiettivo due volti simbolo della New […]
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