12° Biografilm Festival | Recensione: Hoka Hey – A Good Day to Die

HOKA HEY – A GOOD DAY TO DIE (U.S.A., 2016) di Harold Monflis. Documentario. *** ½

Sulla guerra come droga s’è parlato spesso, soprattutto con storie di combattenti o strateghi che, per ragioni diverse, si alimentano dell’adrenalina bellica e così via.

L’interesse di Hoka Hey sta nella focalizzazione di un personaggio, il reporter Jason Howe, il cui impegno professionale è congenitamente ambiguo (giornalismo e arte, informare e creare) s’intreccia alla dimensione quasi avventuriera ed avventuresca di un mondo che ha smarrito il romanticismo esotico per scontrarsi con la diffusione di una tragedia ormai globalizzata e a tutti pressappoco raggiungibile. Raccontato dalla voce coinvolta del protagonista, assistito nella narrazione da colleghi e amici abbastanza franchi, il film si sviluppa attorno a tre nuclei.

Il primo è l’esperienza in Colombia, il cui filone sentimentale (Howe s’innamora di una criminale di guerra) contaminato a quello bellico induce a guardarlo come un filmone d’altri tempi sulle conseguenze dell’amore in tempo di guerra.

E questa dimensione romanzesca s’accentua quando, nel secondo nucleo dedicato alla guerra in Iraq, il passato prossimo ritorna per mettere di fronte l’innamorato ferito ad una scelta fondamentale, mentre il presente è un susseguirsi di esplosioni e corse a perdifiato.

Il terzo è il nucleo della dissoluzione, l’incapacità di affrontare il dopo con il peso di ciò che è avvenuto prima. Howe è diventato famoso grazie ad una fotografia shock di un soldato inglese privato delle gambe.

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Ed è quindi anche un racconto molto politico sul vedere la guerra senza il filtro della propaganda, a costo di essere sgradevole perché la fotografia di guerra deve sconvolgere o non è tale. Individuale e collettivo comunicano benissimo in questo progetto robusto e importante (anche per la bizzarria che trattasi di una produzione malese) su morte e narcisismo, fuoco sacro e inquietudine.

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