La contessa di Hong Kong | Charles C. Chaplin (1967)

La contessa di Hong Kong sconta a tutt’oggi il fatto di essere l’ultimo film di Chaplin, l’unico film a colori di Chaplin, il solo film di Chaplin senza Chaplin. Il Chaplin inatteso, lontano dal genio esplosivo del muto e da quello parco e caustico del sonoro, per certi versi il Chaplin rifiutato, detestato, rinnegato.

Bisogna intendersi dal principio: pur con questo apparato di perplessità, considerando la levatura dell’autore – e non occorrono parole per decantarne il genio, cosa rende questo film importante o comunque rilevante?

Non tanto il suo carattere involontariamente testamentario, perché un Chaplin settantenne non ha bisogno di lasciare un testamento artistico che aggiungesse qualcosa ai capolavori precedenti: è la figura del crepuscolo. Non è solo il crepuscolo esistenziale di Chaplin: è il crepuscolo del cinema classico.

Tutto, ne La contessa di Hong Kong, ha a che fare con la classicità, dai colori sgargianti e falsi di un’ambientazione elitaria e anacronistica (una nave che viaggia dall’Oriente fino agli States), dall’esotismo di certe situazioni da fotoromanzo (la protagonista è una entreneuse rifugiatasi a Hong Kong dopo la rivoluzione russa) al fascino dei divi (la Loren molto più pimpante e scafata di Brando, che disprezzava il film sentendosi ridicolo nella parte), perfino le musiche dello stesso Chaplin sembrano venire da un mondo perduto e quella cinepresa danzante col mare ingrossato riecheggia un cinema artigianale e vivace.

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Se è vero che i momenti migliori sono quelli che occhieggiano all’estetica del muto, grazie alla goffaggine di Brando e al sessappiglio della Loren nonché agli infallibili caratteristi (e in più i memorabili camei di Margareth Rutherford e Chaplin stesso), è il coté romantico a lasciare un po’ freddini, non a caso laddove si sprecano più parole.

E se il film fosse un pretesto per suggerire l’inutilità delle parole, la trappola del sonoro, l’annichilimento generato dalla chiacchiera? Con quella ragazzina che appare tre o quattro volte e non sta un attimo zitta: inizia con «mio padre dice sempre» e si pensa subito all’autore e alla sua beffarda ironia.

E sì, forse è “solo” il deludente lavoro di un genio scopertosi ottimo mestierante, ma questa festa dall’esito scontato, irrimediabilmente velato di straziante malinconia, è una strana e misconosciuta perla sulla coscienza della fine.

LA CONTESSA DI HONG KONG (A COUNTESS FROM HONG KONG, U.S.A., 1967) di Charles C. Chaplin, con Marlon Brando, Sophia Loren, Tippi Hedren, Sydney Chaplin, Margareth Rutherford. Commedia. ***

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