L’indigestione di Natale

In realtà ha poco senso analizzare attentamente un prodotto come La cena di Natale, tratto, come il precedente Io che amo solo te (2015), dal bestseller letterario di Luca Bianchini. Non perché il film non meriti in quanto lavoro degno di attenzioni – o comunque non principalmente per questo motivo. Ma perché ciò che sottende il suo discorso è molto più interessante del suo discorso esplicito.

Con ordine. S’è detto: è un sequel che prosegue ed espande la storia del precedente film, a dire il vero non ne racconta nulla di straordinariamente rilevante, è più che altro un’appendice. Esaurita la storia di base, la si spreme. L’interesse intrigante nei confronti del matrimonio tra Damiano e Chiara riguardava il passato tra il padre di lui, don Mimì, e la madre di lei, Ninella, che trent’anni prima s’erano amati senza poter coronare l’unione. Nel momento in cui il sentimento si legittima per interposta persona, la storia sembra esaurire la propria carica allusiva e prende la più consueta e consunta via della commedia familiare.

Quale effettivamente è La cena di Natale, in cui i due protagonisti giovani devono superare una crisetta sentimentale (lei è incinta, lui la tradisce) e i due maturi decidono di scappare sotto le festività a Parigi. Ora, è evidente che il primo filone è naturalmente meno stuzzicante del secondo, ma non è che il remake dei due cinquanta-sessantenni sia il massimo dell’originalità. È ormai tendenza generale di molto cinema commerciale parlare delle vicende sentimentali della maturità, da È complicato a Marigold Hotel (ma ne parlo meglio qui).

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Che poi, va bene, Michele Placido è forse il nostro unico attore settantenne – diciamo, il nostro unico classico – ad aver mantenuto un certo riscontro di pubblico (Giancarlo Giannini, il più bravo di tutti, si è perso in operazioni infime o sciagurate) e quindi la tesi regge. Ma, in realtà, donna Maria Pia Calzone non arriva neppure a cinquant’anni, e quindi qua il discorso va altrove. L’attrice, affermatasi grazie a Gomorra, è forse l’unica di quel cast ad aver scelto le occasioni del cinema popolare – quale, a suo modo, la serie di Sky è, pur nei ranghi del “genere”.

Ma cos’è il cinema popolare oggi? Checco Zalone, che però è pure cinema satirico. Alessandro Siani, che però è anche cinema regionale. Le commedie di Luca Miniero, che però sono anche format interscambiabili (i conflitti tra nord e sud in ogni dove). Quello di Io che amo solo te e La cena di Natale lo è per tre motivi. Uno: i produttori sono Fulvio e Federica Lucisano, campioni del filone (le commedie di Fausto Brizzi, Massimiliano Bruno, Carlo Vanzina). Due: l’origine è un bestseller letterario letto da gente che di norma non legge. Tre: l’aspirazione al divismo all’italiana.

Il problema fondamentale del film di Marco Ponti (qui particolarmente anonimo) sorge in prossimità degli ultimi due punti. Il recente caso di Fai bei sogni, il grande film malato di Marco Bellocchio, tratto dal clamoroso exploit di Massimo Gramellini, dimostra che non basta prendere un grosso successo letterario per riscuotere un grosso successo cinematografico. A fronte di più d’un milione di copie vendute, Bellocchio s’è fermato attorno al milione di euro al botteghino, e se ne preventivano almeno il triplo.

Casi simili sono quelli di La solitudine dei numeri primi (2010), Il giorno in più (2011), Acciaio (2012), le cui fortune editoriali non sono state eguagliate al cinema. È generoso parlare di successo per Io che amo solo te, tre milioni e trecentomila euro di incasso in gran parte incamerati nel primo weekend. Non lo è, tuttavia, nella prospettiva annuale di un sistema industriale che accende ancora i ceri alla Madonna per i diciassette milioni di Perfetti sconosciuti e propone la beatificazione di Zalone per il suo poker trionfale.

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L’altro punto è più complesso. Come si costruisce un successo nel cinema italiano? Per qualche momento, i cui strascichi scontiamo ancora, la produzione di commedie è stata a livelli quasi insostenibili, tutti ubriacati da Ex e Immaturi (versante fighetto), Benvenuti al sud e i filmetti con Siani o Brignano (versante provinciale). Da un po’ di tempo, il giocattolo si è inceppato e la formula ha dimostrato tutta la sua vacuità. Capirne le ragioni non è argomento di questo ragionamento.

Tuttavia, La cena di Natale documenta l’inesistenza di un divismo all’italiana che qualcuno si ostina a voler creare senza considerare che nessuno davvero voglia crederci. Nessuno va al cinema a vedere un film con Laura Chiatti, se non in coppia con l’intramontabile Carlo Verdone (Io, loro e Lara). Riccardo Scamarcio ha più fortuna quando si lega a qualcosa di solido (Mine vaganti) o consolidato (Nessuno si salva da solo tratto dal bestseller di Margaret Mazzantini) ma il suo nome non porta folle in sala (i flop Pericle il nero, La prima luce, Un ragazzo d’oro).

Il fatto che siano evidentemente bellissimi non basta, tant’è che La cena di Natale pullula di altre presenze: l’amore maturo (Placido, Calzone), il filone lgbt (il gay ingenuo Eugenio Franceschini, Eva Riccobono e le amiche trans), la deriva soap (l’imprevedibile relazione tra il galeotto Antonio Gerardi e la vipera borghese Antonella Attili), un volto fortemente televisivo (Veronica Pivetti), uno fortemente regionale (Uccio De Santis).

E poi la cornice cartolinesca di Polignano a Mare che vanta un’incredibile clima estivo sotto Natale, il rito tradizionale godereccio e conviviale e la vecchia canzone italiana che funziona sempre anche quando non c’entra niente. La cena di Natale non è (solo) un film: è un’operazione commerciale molto studiata e poco appassionata, falsa e prevedibile, patinata e irritante, mielosa e indigesta.

 

LA CENA DI NATALE (Italia, 2016) di Marco Ponti, con Riccardo Scamarcio, Laura Chiatti, Michele Placido, Maria Pia Calzone, Antonella Attili, Eugenio Franceschini, Antonio Gerardi, Veronica Pivetti. Commedia sentimentale. **

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