SOLE CUORE AMORE (Italia, 2016) di Daniele Vicari, con Isabella Ragonese, Eva Grieco, Francesco Montanari, Francesco Acquaroli, Paola Tiziana Cruciani. Drammatico. ***
Non fosse altro per il racconto di una Roma sulla soglia del disagio, abbastanza inconsueta in un cinema fin troppo timido nel parlare di periferie sociali e di conti che non quadrano alla fine del mese, Daniele Vicari merita il plauso che già da qualche anno l’ha reso il capofila tra i nostri registi indignados. E oltre al dove va considerato pure il cosa, perché di lavoro non si sa mai come parlare, men che meno di quel nuovo proletariato pendolare, mal retribuito e massacrato da turni infami e padroni arroganti.
In realtà non sono pochi i registi italiani che di recente si sono misurati col tema: naturalmente è il come a determinare lo scarto. Paolo Virzì, nell’ambito di un’amara commedia sociale (Tutta la vita davanti, Tutti i santi giorni), frequentata anche da Carlo Verdone (Posti in piedi in Paradiso), poi dissacrata da Sydney Sibilia (Smetto quando voglio, ma volendo anche Noi e la Giulia di Edoardo Leo), e da altri con certe ambizioni generazionali (i post-giovani di Riprendimi, Generazione 1000 euro, Fuga dal call center, Workers); Daniele Luchetti (il furente La nostra vita), Ivano De Matteo (il retorico Gli equilibristi) e prima ancora Francesca Comencini (il rigoroso e ormai lontano Mi piace lavorare).
Vicari si posiziona nettamente in questo gruppetto, con suggestioni che gli vengono dal cinema civile europeo (l’imprescindibile Ken Loach, i melodrammi populisti di Philippe Lioret), e non a caso sceglie il volto emblematico di Isabella Ragonese, già centralinista per Virzì e mamma per Luchetti. Sarà per il bagaglio di esperienze che l’attrice si porta dietro, ma l’eccellente Ragonese si carica addosso il peso di Sole cuore amore con stoicismo.
Certo, è lei la vera protagonista del racconto: Eli, madre di famiglia, quattro figli in dieci anni, moglie di un inoccupato molto amorevole e un po’ abbattuto (ottimo Francesco Montanari, che indovina con bravura un ruolo scritto in modo non proprio esaltante), si sveglia ogni mattina alle 4:30 e fa due ore di viaggio in autobus e metro per arrivare al Tuscolano, dove lavora fino alla sera sette giorni su sette per poco più di settecento euro al mese (in nero).
Questa parabola umana, esplicitamente suggestionata dalla tradizione neorealista, pur con qualche eccesso di programmaticità che la fa sconfinare verso il concept di un film a tesi, gode della convivenza di coinvolgimento emotivo e indignazione sociale, dell’evidente e condivisibile partigianeria di Vicari che conferma l’approccio emotivo e militante del suo cinema engagé. Del neorealismo conserva anche il manicheismo, benché il padrone tratteggiato con inquietante grandezza popolana da Francesco Acquaroli sia tanto sfuggente e stratificato quanto cinico e schiacciato da altri pesi.
Sole cuore amore è essenzialmente tutto qui, anche se la storia di Eli s’intreccia a quella della “quasi sorella”Vale, performer d’estrazione borghese che abita nell’appartamento al piano di sotto, con qualche tensione lesbica e un conflittuale rapporto con la madre (Paola Tiziana Cruciani, che vorremmo vedere di più in scena). Sia per la fragilità narrativa controbilanciata da una maggiore cura formale (le luci sono di Gheardo Gossi) sia per l’inadeguata interpretazione di Eva Grieco, il filone di Vale appare slegato, irrisolto, direi perfino superfluo nell’economia di un racconto che finisce per condizionare negativamente.
Come i nomi delle due protagonista, Sole cuore amore è un film che pulsa di realtà vera ma sembra mancare di un suffisso che lo completi. Poteva vivere solo di Eli, che cammina sugli stranianti giri di jazz di Stefano Di Battista, col suo iconico cappottino rosso e un destino che è come un cazzotto previsto ma comunque dolorosissimo. Dicesi “film necessario”, con tutti gli scompensi che la definizione implica.