Recensione: Scappa – Get Out

SCAPPAGET OUT (GET OUT, U.S.A., 2017) di Jordan Peele, con Daniel Kaluuya, Allison Williams, Bradley Whitford, Catherine Keener, Caleb Landry Jones. Horror. ***

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Inizia come Indovina chi viene a cena, ma cinquant’anni dopo. La famiglia democratica è liberale quanto basta per accettare l’innesto del corpo nero nel nucleo bianco. E ciò accade anche se il nero non è inattaccabile come, nel classico di Stanley Kramer, Sidney Poitier, medico illuminato ferito dal dolore: Daniel Kaluuya – che non è una star come lo era all’epoca il più celebrato attore afroamericano – è un ragazzo dentro il suo tempo fragile, che col disincantato sorriso della sua generazione fotografa gli anni liquidi della crisi.

Da parte della famiglia bianca della sua ragazza, infatti, sembra esserci un’affettuosa comprensione paternalistica. invece, è ricca, colta ed accogliente. Una sorta di Partito democratico in scala ridotta, il cui elettorato d’altronde rappresenta con una certa perfidia. Infatti, tutta questa apertura lascia perplessi quando scopriamo che due afroamericani sono i domestici della casa. L’abitudine allo schiavismo, in fondo, è sempre lì, mascherata con l’ostentata cortesia di chi sostiene di essere nel giusto. Ma è ad una festa che il protagonista si accorge dell’inganno.

È singolare che Get Out appaia sui nostri schermi poco dopo l’elezione di Trump. Quasi a farci dire che non dovremmo aver paura di Trump in sé, ma del Trump in me. Più dell’America in quanto tale, il bersaglio di Jordan Peele è l’ipocrisia di chi è convinto di aver risolto la questione razzista con lo specchietto delle allodole obamiano: per l’esattezza della disamina specie nella prima parte, non stentiamo a credere che la famiglia bianca sia elettrice di Hillary.

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A differenza degli altri film del nutrito ed eterogeneo filone black (dai documentari 13th e I Am Not Your Negro passando per i biopic 12 anni schiavo, The Butler, Il diritto di contare e Loving fino a Moonlight), l’esordio di Peele sceglie la satira per scandagliare le ipocrisie, le contraddizioni, i non-detti della comunità bianca, sublimandosi in una deriva terrificante che conferma quanto l’horror si presti ad essere ciclicamente come il genere più disponibile ad accogliere pulsioni inconfessabili della nazione.

Certo, la seconda parte rivela tutto il gusto citazionista (sì, pensiamo a George A. Romero e John Carpenter) al servizio di un sensazionalismo essenziale a definire la perversione e l’ansia, ma è tutto finalizzato a raccontare un’ossessione segreta sospesa tra erotismo e paura, con l’apice rappresentato proprio dagli occhi posseduti e disperati del convitato che lancia l’allarme del titolo. Uno di quei film profondamente incastrato nella cultura americana, che forse qui oltreoceano può turbare solo parzialmente.

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