13° Biografilm Festival | Recensione: Io danzerò (La danseuse)

IO DANZERÒ (LA DANSEUSE, Francia, 2016) di Stéphanie Di Giusto, con Soko, Gaspard Ulliel, Melanie Thierry, Lily-Rose Depp, François Damiens. Biografico drammatico. ** ½

Pioniera della danza contemporanea, capace di rivoluzionare il panorama artistico con le sue performance vorticose ed elettriche, la figura di Loïe Fuller, che catalizzò l’attenzione anche alle origini del cinema per l’impatto spettacolare della sua opera, diventa protagonista di una biografia romanzata che, a suo modo, funge un po’ da parentesi o preambolo al vecchio Isadora con Vanessa Redgrave.

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Della Duncan, infatti, la Fuller fu inizialmente guida e, quando si rese conto del suo talento, fece di tutto per trattenerla a sé, non impedendole, comunque, un abbandono che, nell’economia di Io danzerò, funge da ideale conclusione della sua vita. E questo perché, senza dolo alcuno, la componente finzionale di questo biopic è palese anche agli occhi di chi non conosce la biografia della Fuller, per il semplice fatto che la concatenazione degli eventi è strutturata secondo logiche cinematografiche abbastanza incredibili.

Poco male, certo, perché nessuno pretende il documentario, e soprattutto perché Io danzerò è fondato sull’attesa dell’eccezionale: nella fattispecie, le esibizioni attorno alle quali si sviluppa prima il racconto di emancipazione dell’orfana di padre che uccide metaforicamente la madre castrante e poi quello sulla ricerca del posto nel mondo dell’arte, in un’epoca di folies bergère ed avanguardie subito recepite dalla scaltrezza di impresari dentro il sistema.

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Accanto, la dimensione sentimentale di una donna in divenire, corteggiata (e certamente amata) da un tormentato, decaduto e tossicomane nobile, aiutata (e forse amata) da una protettiva assistente e sedotta (e per niente amata) dalla Duncan di cui sopra. Specialmente i primi due, interpretati da Gaspard Ulliel e Melanie Thierry con finezza e rigore, sono i poli più interessanti di un film dominato dalla totalizzante interpretazione dell’eclettica Soko, che si dona al pubblico interno ed esterno con indubbia dedizione ed affetto per il personaggio.

Peccato che la narrazione perda quota non di rado, bisognosa di un’organizzazione un po’ più slegata dalle logiche del biopic classico e strutturata con meno necessità di dire troppe cose. A parlare, e a dare un significato vero al film, è piuttosto l’impeccabile confezione che sa restituire l’epoca senza leziosi manierismi, raggiungendo picchi abbastanza evidenti nelle straordinarie immagini delle performance ma anche nell’amara malinconia degli esterni mai assolati.

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