Lollo 90

Se per diva s’intende un personaggio costruito per essere irraggiungibile, inaccessibile, ideale, mitizzato, allora Gina Lollobrigida da Subiaco con furore è stata diva, forse la più consapevole ed attrezzata della sua stagione – che è di per sé breve, come d’altronde si conviene ad un’attrice di questa levatura: ma è quel poco tempo, se lucidamente gestito, a garantire quel tipo di eternità che solo il divismo sa assicurare.

È la sola ad aver saputo gestire l’esperienza hollywoodiana con l’allure dell’esotica bellezza mediterranea e la coscienza della caducità di un momento glorioso e fugace. Ma la Lollo è soprattutto una diva in absentia. Dal grande schermo, anzitutto, cioè il luogo della sua fortuna. Eccettuata una mezza dozzina di apparizioni (compresa la high soap Falcon Crest, accanto a Jane Wyman già dea del camp per Douglas Sirk…), l’attrice diserta il cinema da almeno quarant’anni. E non pare aver intenzione di rientrare in gioco, specie all’indomani dei suoi novant’anni.

Ma la Lollo, come affettuosamente la chiama il pubblico ispirato dalla stampa popolare, è oggi più una fu diva che un’ex diva. Riscopertasi scultrice di opere che anche l’occhio meno competente non può non giudicare a metà tra il camp e il kitsch, è purtroppo diventata malinconica (eufemismo) protagonista della più becera cronaca rosa, causa un matrimonio-truffa, litigi familiari, presunti raggiri.

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Il caso Lollo, però, come in un serial di Ryan Murphy (o meno ambiziosamente di Teodosio Losito), si può osservare anche grazie a questi tristi frangenti di vita privata fattisi gossip: c’è qualcosa di più irresistibile e sadico nel viale del tramonto di questa simpatica e fiera signora – sia detto con il massimo rispetto – imparruccata e dall’outfit principesco, che vive in una villa di spettacolare decadenza tra Norma Desmond e il generone romano, sfiorata dal sospetto di essere costantemente circuita da giovani e disponibili toy boys (un po’ come nel profetico, in questo senso, La primavera romana della signora Stone)?

E senza ricorrere al privato, che è comunque tutto ciò che ci offre la sua figura da troppo tempo a questa parte, come si può non parlare della Lollo evitando di tirare in ballo la sua strepitosa tendenza al catfight, e non tanto con Francesca Dellera, dimenticata star degli anni ottanta berlusconiani, che ebbe la sciagura di recitare l’eroina titolare nel remake televisivo de La romana, che la stessa Lollo aveva interpretato all’apice della sua carriera nel 1954.

Si parla, ovviamente, dell’eterna lotta a distanza con Sophia Loren, di qualche anno più giovane, consacratasi diva più o meno nello stesso ’54 grazie al pigmalione Vittorio De Sica, già partner della Lollo nell’immortale dittico Pane, amore e fantasia e Pane, amore e gelosia, il cui terzo capitolo, Pane, amore e…, vide proprio il passaggio del testimone, metafora di un’intera epoca divistica perché, nei fatti, primo atto finale della carriera della Lollo.

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Da questo momento, le due dive, pur nell’eleganza del loro disprezzo malcelato, vivono un eterno catfight. La Loren fa una discreta gavetta americana con il solo obiettivo di tornare trionfante in Italia al fine di veder riconosciuto il proprio talento all’estero (prima di essere una grande interpretazione, La ciociara è un capolavoro industriale sull’oggetto Loren: agli occhi del mondo, ella diventa l’Italia) e poi scivolare negli anni seguenti tra splendori (cioè quando c’è un regista come cristo comanda che la guida: De Sica, Ettore Scola, più tardi Robert Altman e pochissimi altri) e miserie (il resto), pur restando, ora e per sempre, icona.

La Lollo, da par suo, non sa farsi icona, malgrado la Bersagliera dei Pane e amore sia un personaggio memorabile, simbolo di un’epoca, di un mondo, di una nazione periferica. Dopo l’avvento della Loren, si misura nell’ordine: con inutili ma redditizie biografie romanzate fondate sul farsi icona (i dimenticati La donna più bella del mondo e Venere imperiale); con una stucchevolissima riproposizione dello strapaesano al lume della sua esperienza straniera (Anna di Brooklyn); piccoli successi americani senza prospettive (Torna a settembre o Buonasera, signora Campbell, fonte di Mamma mia!).

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Gina dà il meglio quando pensa di non darlo, cioè quando la sua recitazione retoricamente naturalistica sfida il realismo per gettarsi nel vuoto dell’assurdo: e trova referenze negl’impossibili capelli biondi della benzinaia extra-antonioniana de La bellezza di Ippolita o in quelli azzurri della severa e algida fata del capolavoro Le avventure di Pinocchio, dal ruolo al limite del maledetto Mare matto fino allo stupefacente (e cosciente) straniamento che sa trasmettere nell’inquietante La morte ha fatto l’uovo, dove gestisce un allevamento di polli.

Sono ruoli che non determinano una maturazione artistica ma rifondano continuamente un monumento da picconare per farlo diventare altro da sé, a differenza dell’artificiosa naturalezza del moloch Loren, che avrebbe potuto dare al cinema degli ultimi quattro decenni molto di più di quanto permessa dalla sua ansia divistica. Gina, che scema non è, se ne accorse giusto in tempo prima di diventare la protagonista di quel reverente grandguignol che solo Dario Argento o Bernardo Bertolucci hanno saputo accennare richiamando in battaglia le Clara Calamai, Yvonne Sanson, Alida Valli (la più grande di tutte, con buona pace delle altre, esportata assieme a Valentina Cortese e prima della povera Anna Maria Pierangeli).

Ma sarebbe davvero impagabile rileggere questo filone della storia del cinema italiano come in un’ideale Feud tra Lollobrigida e Loren, che pur non avendo mai lavorato insieme (sia mai! – ma che goduria sarebbe vederlo oggi?) hanno proiettato l’una sull’altra la propria frustrazione di non essere più le dee di un tempo perduto, quando si contendevano a suon di copertine, locandine, film la palma di prima diva (maggiorata) dell’epoca.

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Il primato spetta alla Lollo per pura questione anagrafica, perché, mentre Sophia cercava di riscattarsi attraverso la scalata al cinema, Gina infilava ruoli da antologia, sia nella commedia (Vita da cani, Altri tempi) che nel dramma, con la vetta de La provinciale, capolavoro strutturato, pensato, girato all’americana in cui vola, e al servizio di John Huston che colse bene il mistero di una bellezza troppo pronunciata per essere credibile nel folle Il tesoro dell’Africa – così come Orson Welles ne spogliò l’immagine: ma non parlate all’attrice del rinnegato e nascosto Portrait of Gina. Che in America circolò (poco) anche con il più simbolico, allusivo, beffardo, maestoso dei titoli: Viva Italia.

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