CANE MANGIA CANE (DOG EAT DOG, U.S.A., 2016) di Paul Schrader, con Nicolas Cage, Willem Dafoe, Christopher Matthew Cook, Omar J. Dorsey, Louisa Krause, Melissa Bolona, Paul Schrader. Noir. *** ½
Incipit domestico. Pareti rosa, televisore col tubo catodico, divano retro. La televisione che è in me, cioè in Willem Dafoe. Montaggio sincopato ed è subito blu elettrico, eroina squagliata e via endovena. Specchi deformanti. Entra una donna obesa e Dafoe la uccide a sangue freddo mentre, mentre ballano le teste di pupazzetti raffiguranti icone mediatiche. E poi ancora morte.
Titolo. Stacco. Bianco e nero: locale notturno, musica d’atmosfera, cliché criminali tra il noir d’antan (do you remember Bogart?) e il neonoir derivativo. Cane mangia cane oppure: estetica del (cosciente) brutto e scarti della società (dello spettacolo). Pulp fiction, ma quella vera, che solo Paul Schrader sa declinare senza l’ansia di dover piacere, come un titano fragile che lancia i fulmini anzitutto contro se stesso.
E contro un cinema, quello americano contemporaneo, incapace di accogliere il suo genio disperato, troppo piccolo per credere alle ragioni di un’apocalisse imminente. Film devastante, parabola profondamente cristologica: tre uomini e il colpo (im)perfetto come tre croci sul Golgota dell’innocenza perduta prima di averla. Catabasi tripartita fondata sull’impossibilità del cambiamento. Destino, fatalismo, Dio.
Barocco impossibile: il triello (ma è due contro uno, uno contro il mondo, Nicolas Cage contro il cinema) che richiama i colori lisergici dell’incipit, chiusura di un cerchio o meglio un buco moltiplicato: i fori dei proiettili che perforano l’auto del pastore sacrificato sull’altare dell’apologo. La verità è una scelta. Esiste altrove un cinema così inscindibile dal senso di colpa?