Venezia 74 | Recensione: Suburbicon

SUBURBICON (U.S.A., 2017) di George Clooney, con Matt Damon, Julianne Moore, Oscar Isaac, Noah Jupe, Glenn Fleshler, Megan Ferguson. Commedia nera. ***

All’indomani del loro fortunato esordio, a metà degli anni ottanta, i fratelli Coen scrissero la sceneggiatura di questo Suburbicon. Presi da mille altre faccende, hanno dirottato il copione nelle mani dell’amico e sodale George Clooney, che lo ha quindi diretto dopo il fallimentare Monuments Men, quasi per riscattarsi agli occhi di coloro che dubitano sulle sue effettive capacità.

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Eseguendo questo lavoro che, sulla carta, sarebbe più in linea col suo talento recitativo che con quello registico, Clooney dimostra di saper essere un affidabile interprete della lezione coeniana e un valido coordinatore della messinscena. E questo perché il divo conosce bene i segreti della tragicommedia umana dei Coen, come sempre imperniata su personaggi fondamentalmente idioti non all’altezza delle situazioni in cui incappano.

L’intreccio, peraltro, ha una forte componente sociale legata alla storia recente statunitense che si può leggere in parallelo con le complessità del presente. Partendo da un fatto di cronaca prekennedyano, i Coen recuperano la storia di una famiglia black, i Mayers, che, trasferitasi in un placido sobborgo bianco, destabilizza la comunità che finisce per devastarle la casa pur di sfogare il proprio violento razzismo.

Mantenendo la questione sullo sfondo – anzi: letteralmente a latere – il plot si sposta sui vicini di casa, una tipica famiglia americana funestata dall’uccisione della madre durante una rapina. La coincidenza del coevo trasferimento dei Mayers non viene così interpretata dalla cittadina, che si vede negare la rappresentazione idilliaca che sprigiona lo spot para-televisivo che apre il film ed illustra la vita di Suburbicon.

Con questo materiale, il liberal Clooney può permettersi di recuperare il potenziale grottesco del noir, con i referenti della truffa all’assicurazione e della doppia e superlativa Julianne Moore bionda a ricordarci quanto sia fondamentale La fiamma del peccato anche laddove non c’entra niente. Proprio la Moore, che interpreta due gemelle, è la chiave di questo racconto sulla doppiezza della realtà, indagata da un bizzarro agente delle assicurazioni (un grande cammeone di Oscar Isaac) e filtrata dagli occhi infantili del povero figlioletto Noah Jupe.

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E soprattutto perpetuata dal feroce, represso, spudorato padre Matt Damon (all’apice), alfiere di un’America ipocrita e paranoica, ovvia premonizione dell’americano contemporaneo impaurito ed incattivito incarnato dalla presidenza Trump. Potremmo pensare che in un gioco di specchi i Coen parlassero all’epoca di Reagan ed oggi Clooney si riferisca all’attuale politica, ma è in realtà un cane che si morde la coda che finisce per dimostrare quanto siano cicliche certe tendenze nella storia americana.

In realtà ciò che può colpisce di Suburbicon, un Coen senza i Coen corretto ed esatto ma senza particolari guizzi, è la precisione dell’inquietante décor degli anni cinquanta, lo scrupoloso domestico reinterpretato al lume della finzione cinematografica, il palco di un’angoscia privata trasfigurata in un allucinato affresco collettivo che è anche l’acre racconto di formazione di un bambino segnato dalla facilità del sangue.

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