IN ARTE NINO (Italia, 2016) di Luca Manfredi, con Elio Germano, Miriam Leone, Stefano Fresi, Duccio Camerini, Anna Ferruzzo, Giorgio Tirabassi, Pietro Ragusa, Paola Minaccioni, Leo Gullotta, Massimo Wertmuller, Roberto Citran, Vincenzo Zampa, Barbara Ronchi, Flavio Furno. Biografico commedia. **
Strano a dirsi, ma non è un genere molto frequentato in Italia il biopic su una persona legata al mondo del cinema. La Rai è l’unica ad essersi impegnata in questa direzione, da La mia casa è piena di specchi sulla scalata al successo di Sophia Loren (nei panni di sua madre; ma già ne 1980 fu se stessa in un tv movie autobiografico per un network americano) a Fino all’ultima risata con Alessio Boni nel ruolo di Walter Chiari. Due storie a loro modo emblematiche, l’una di riscatto sociale e l’altra di lenta decadenza, così come lo era Sanguepazzo, fosco e cupo racconto sui divi di regime Luisa Ferida e Osvaldo Valenti.
Quella di Nino Manfredi è, invece, una storia da common man della sua generazione, sulla scia di Volare su Domenico Modugno, altra biografia focalizzata sulla giovinezza del soggetto prima della fama. La parte iniziale dentro il sanatorio dovrebbe suggerire il segno di una predestinazione alla vita (tutti i compagni ricoverati muoiono) che il resto del film tenderebbe a negare.
E lo fa proprio celebrando la normalità di un ragazzo cresciuto in una famiglia dignitosa, mamma casalinga e papà poliziotto ciociari trapiantati a Roma, e la faticosa ascesa artistica fino alla conduzione di Canzonissima (ancora un’autocelebrazione aziendale, lungimirante fabbrica di memorie) – ma c’è spazio anche per il matrimonio con l’incantevole Erminia alias Miriam Leone.
Chi è, insomma, Manfredi? Un uomo o un attore straordinario? Il dubbio viene osservando la comunque eccezionale interpretazione di Elio Germano, qui impegnato anche come sceneggiatore, che ripensa Manfredi partendo dalla sua immagine pubblica, ispirandosi alle sue caratteristiche più paradigmatiche sul grande (e piccolo schermo): gli occhi fatalisti allagati di saggezza popolare, il sorriso malinconicamente votato alla dolcezza, la camminata irrequieta di chi teme di arrivare in fondo.
Per interpretare il nostro attore più americano, tra i moschettieri della commedia all’italiana quello più interessato allo studio psicologico e al mimetismo grazie al fondamentale magistero di Orazio Costa, Germano adotta un metodo manfrediano anche per entrare nel suo privato. Al contempo, la piatta e sincera regia di Luca Manfredi capisce di non potersi servire del tipico stile che la Rai impone ai suoi biopic (a proposito: meritoria la scelta di limitarsi ad una puntata e non spalmarsi sulle solite e spesso inutili tre ore), quell’agiografia melodrammatico in cui ogni gesto implica una predeterminazione da santo (laico).
Fin troppo sottolineata dalle ridondante musiche di Nicola Piovani, In arte Nino è una commedia sorridente e rassicurante anche nei frangenti meno spiritosi (il rapporto conflittuale col padre, l’ottimo Duccio Camerini), complice pure il simpatico utilizzo dei bozzettistici comprimari, tra cui si segnalano la gustosa rilettura di Tino Buazzelli da parte di Stefano Fresi e il (non citato) Mario Soldati di Massimo Wertmuller. Ci sono almeno due manfrediani affettuosamente coinvolti in parti piccole o piccolissime: Leo Gullotta (insieme in Café Express, Spaghetti House, Grandi magazzini) e Giorgio Tirabassi (agente in Un commissario a Roma).