È giunta l’ora di riscoprire l’opera di Richard Brooks, regista che sul calare della golden age hollywoodiana fu tra i più abili a sapersi misurare con due componenti fondamentali quanto ingombranti: il divismo (citiamo almeno il fiammeggiante L’ultima volta che vidi Parigi) e l’adattamento (Lord Jim, A sangue freddo, addirittura Karamazov e molti altri).
Non è un caso che dopo il suo long seller La gatta sul tetto che scotta abbia diretto anche La dolce ala della giovinezza: reinterpretando cinematograficamente il teatro di Tennessee Williams dandogli respiro senza rinnegare la claustrofobia opprimente di un sud crudele, Brooksseppe gestire la presenza di corpi ora perfetti (Paul Newman, Elizabeth Taylor) ora tormentati (Geraldine Page o Ed Begley) dentro macchine inospitali ma seducenti.
Ma tra queste due trasposizioni ce n’è un’altra tratta da un romanzo, Il figlio di Giuda, che è forse una delle tappe davvero più importanti di una carriera scarlatta e dimenticata. Concentrandosi solo parzialmente sull’allusivo Elmer Gantry, Brooks scrive e dirige una storia a dir poco emblematica, ispirata a quella vera di Aimee Semple McPherson, una predicatrice in gran voga negli anni venti che ebbe il suo massimo riscontro nel periodo della grande depressione.
All’alba dell’età kennedyana, chiudendo un decennio paranoico e tristanzuolo, Brooks sceglie di ripercorrere la parabola di un leader disonesto e populista (straripante Burt Lancaster, altro divo da riconsiderare): il protagonista, infatti, è sì un alcolizzato chiacchierone come vediamo nell’incipit, ma è soprattutto un capo carismatico in grado di suscitare sentimenti empatici e appassionati in una popolazione desiderosa di risposte dall’alto alle domande imposte dalla crisi e dalla disperazione.
Elmer incanala il suo bisogno di comando, controllo ed onnipotenza nel supportare, appunto, la missione di sorella Sharon (cioè la McPherson: è Jean Simmons, bravissima e più matura dei suoi trent’anni), che alla pari dei fedeli si lascia incantare dal fascino di quest’uomo che sembra coniugare un’ideale connessione con il divino ad una pragmatica gestione commerciale del business religioso-spettacolare, un qualcosa che avremmo poi rivisto nelle memorabili sequenze della predicatrice Geraldine Page ne Il giorno della locusta.
Rievocando una stagione deprimente, Brooks ha l’occasione di esplorare una provincia che sarà centrale nel racconto della New Hollywood. Ma la sua prospettiva non ha nulla di nostalgico (la fotografia insudiciata di John Alton è perfetta) e il piglio lucidamente inquieto appartiene a qualcuno che ha deposto le armi di fronte alla ricerca della verità, conscio dell’inganno sotteso alla costruzione del consenso e alla dissoluta collusione coi mass media. Film-monstre, ancor oggi problematico ed implacabile anche quando rallenta.
IL FIGLIO DI GIUDA (ELMER GANTRY, U.S.A., 1960) di Richard Brooks, con Burt Lancaster, Jean Simmons, Shirley Jones, Arthur Kennedy, Dean Jagger, Patti Page. Drammatico. *** ½