Recensione: L’altra metà della storia

L’ALTRA METÀ DELLA STORIA (THE SENSE OF AN ENDING, G.B., 2017) di Ritesh Batra, con Jim Broadbent, Charlotte Rampling, Harriet Walter, Michelle Dockery, Billy Howle, Freya Mavor, Joe Alwyn, Emily Mortimer, Matthew Goode, James Wilby. Mélo. ** ½

Risultati immagini per the sense of an endingSin da ragazzo, assieme ai suoi amici più cari, Tony porta l’orologio al polso rivolto verso il corpo. Quando Veronica glielo fa notare, lui sostiene di farlo per sentirsi più affascinante. Lo sguardo di lei è emblematico e fa capire molto di questo personaggio a dir poco sfuggente. L’oggetto in questione è un evidente simbolo: non a caso, in un momento decisivo del film, questo orologio si ferma, conducendo Tony in un tempo che non esiste se non nei meandri della sua memoria rimossa.

L’altra metà della storia parla anzitutto di tempo. Ossessione della nostalgia, cioè dolore del ritorno. Il montaggio frantuma il passato nei ricordi dell’ormai settantenne protagonista, procedendo per analogie e parallelismi. Che cos’è la verità? Che cosa ha a che fare con la storia? La storia, in fondo, non è, sic et simpliciter, ciò che è accaduto in un «tempo molto inquieto»?

Tratto da Il senso di una fine di Julian Barnes, è il primo film anglosassone di un regista indiano. Abbiamo già visto il secondo, Le nostre anime di notte: curiosamente un altro adattamento letterario e un’altra storia sul tempo che passa, su anziani che fanno i conti con il passato (il Sul lago dorato dei giorni nostri, s’è detto del love affair Redford-Fonda, e proprio del film con Hepburn-Fonda mutua una mitica citazione, quella del «cavaliere dalla scintillante armatura»).

A differenza de Le nostre anime che è a suo modo proiettato al futuro o a ciò che resta, L’altra metà si guarda indietro, scandaglia i ricordi, indaga nell’intimità di un dolore nascosto dalla vita. Il giovane Tony che, mentre si masturba, si specchia nello specchio scisso a casa di Veronica mette in luce la problematicità di un uomo colto nella sua improvvisa tragedia covata da sempre.

La matrice letteraria si sente sin dalle lettere, veri centri di detonazione della una narrazione fatalmente retrò («le lettere non si scrivono più», dice la figlia: un’altra generazione). Scritte in modi diversi (a mano, battute con la macchina da scrivere o al pc, mail e, traslate, messaggi in segreteria telefonica), sono loro che muovono il film. E forse la sceneggiatura si affida un po’ troppo a questo strumento, sia quando decide di renderle protagoniste di ellissi sia nei momenti più didascalici.

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Al film, in effetti, manca quell’afflato melodrammatico in grado di coinvolgere davvero in un racconto comunque ingarbugliato ma avvincente, che sconta un po’ la confezione impeccabilmente molto british ma non di rado manierata, compresi i flashback piuttosto convenzionali e interpretati senza molto senso del dolore. Ma Jim Broadbent è perfetto nel tratteggiare il tormento che monta nella sua anima ferita, e quando appare Charlotte Rampling non si dimentica facilmente.

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