Recensione: Le donne della mia vita

LE DONNE DELLA MIA VITA (20th CENTURY WOMEN, U.S.A., 2016) di Mike Mills, con Annette Bening, Elle Fanning, Greta Gerwig, Lucas Jade Zunamann, Alia Shawkat, Billy Crudup, Laura Wiggins. Commedia. ****

disponibile su Infinity

Come nel suo indimenticato secondo film, Mike Mills continua il suo personale discorso sui beginners. L’educazione sentimentale dei principianti della vita mutua dal primo film un personaggio maschile colto nel proprio coming of age – non più tardivo e dettato dagli eventi inaspettati: qui la questione è puramente anagrafica – ma allarga la prospettiva ad un mondo femminile assolutamente dominante.

Ce lo dice già il bel titolo originale che il cuore è l’inesorabile crudeltà di un tempo che scorre dolcemente. Siamo nel 1979, Jimmy Carter sa che non governerà ancora a lungo e va in televisione a parlare della crisi della fiducia. Dorothea, madre cinquantenne che è cresciuta durante gli anni della Grande Crisi del ’29, ne afferra il dolore intimo pensando al rapporto col figlio adolescente, Jamie, cresciuto senza padre e circondato da presenze femminili che lo introducono alla maturità.

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«Come si fa a diventare un brav’uomo?» si chiede Dorothea, dichiarando la propria inadeguatezza ad accompagnare in solitudine verso la vita adulta un ragazzo che «ogni giorno conosco sempre meno». Allora delega alla fotografa Abbie che abita con loro e a Julie, la giovanissima vicina di casa, di assisterlo, cercando di capire cosa possa mai trovarci nella musica punk o quale dialettica intenda instaurare con l’altro sesso.

In questo film pervaso dal tempo, Mills sa trasmetterne il senso attraverso la storia delle cose, degli oggetti. Nell’incipit c’è una macchina che brucia, innescando la dimensione memorialistica su cui si edifica la narrazione. «Non è sempre stata vecchia!», contesta la madre di fronte alla sbrigativa spiegazione del figlio: ed è ovvio che quell’auto esprima simbolicamente ciò che lei teme di diventare, cioè ceneri di un passato inutile per il futuro.

Non a caso, le auto ricorrono: ce n’è una che sfreccia nel video psichedelico immaginato da Jamie; un maggiolone imbrattato con la scritta “Black Flag”, la band preferita di Jamie; in un’auto Jule consuma il suo primo rapporto sessuale; nel finale, la mamma ne guida una a cui il figlio si appoggia in piedi su uno skate. È un elemento molto interessante che allude alle strade consumate nella tradizione americana dei buildingsroman. Ma, a differenza dei road movie, sono macchine quasi sempre ferme, fatte le eccezioni dell’ipotesi pseudo-allucinogena e del finale catartico.

E questo perché Mills ancora la storia ad uno spazio ben preciso. La casa di Dorothea e Jamie sembra appartenere ad un tempo che non esiste, dove il décor potrebbe far credere che possa trattarsi della solita commedia indie, ma è abitata da un’anima più complessa dell’infinita riproducibilità degli stilemi di un filone. Fuori dalla casa, i personaggi sembrano perduti: se altrove si lasciano devastare dall’attesa (esiti medici, amorosi, sociali) o non sanno relazionarsi con l’insolito, appena posso si rintanano laddove si sentono più al sicuro. Dorothea è la sua casa: lei è il ventre.

Le donne della mia vita comunica il senso di una protezione all’epoca dello svelamento delle vulnerabilità. Servendosi di una struttura fortemente romanzesca, Mills usa con grande intelligenza le voci off, permettendo ai protagonisti di chiosare se stessi e illustrare le coordinate del loro pensiero. La sua è una regia di sensibile pudore, dove i lenti zoom all’indietro veicolano un’empatia che agisce per distacco e le fotografie aiutano a fornire autoritratti altrui.

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Forse ciò che davvero entusiasma è l’attenzione con la quale ricerca l’autenticità attraverso il richiamo consapevole ad un apparato molto circostanziato della cultura e del costume americani. Per definire personaggi e situazioni sono citati: per esempio, La collina dei ciliegi, le Birkenstock, le Salem leggere (Dorothea), David Bowie e i capelli rosa ne L’uomo caduto sulla terra (Abbie), La strada meno percorsa di Scott Peck, Forever di Judy Blume, Le politiche dell’orgasmo di Wilhelm Reich (Jamie), l’avanguardia di Koyaanisquatsi.

Un film strepitoso, dentro il Paese che intende raccontare dal particolare al generale e viceversa, un’ode alla crescita e alla ricerca della felicità dove si piange fuori scena. Tutto è dominato da un’indimenticabile Annette Bening, scandalosamente esclusa dai premi della scorsa stagione: apodittica, malinconica, ruvida, umanissima, con qualche citazione da mandare a memoria («Credo soltanto che avere il cuore spezzato sia un modo terribile per sapere come va il mondo»; «Chiedersi se si è felici è il primo passo verso la depressione») e due o tre momenti altissimi.

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