DETROIT (U.S.A., 2017) di Kathryn Bigelow, con John Boyega, Will Poulter, Algee Smith, Jacob Latimore, Jason Mitchell, Jack Reynor, John Krasinski. Storico drammatico. ** ½
Nel recente filone di cinema black (chiamiamolo così per convenzione), Detroit è una tappa fondamentale e perfino programmaticamente importante: dopo tanti lavori diretti da registi afroamericani (12 anni schiavo, Selma, The Birth of a Nation, 13th, Get Out per citarne alcuni), qui a misurarsi con i drammi della questione razziale è una donna bianca, entrata nella storia per essere stata la prima a ricevere l’Oscar come miglior regista.
Quel premio, ottenuto per il non allineato The Hurt Locker, ha finito per porla sotto una pressione non giustificata, come dimostra il trattamento riservato al quasi capolavoro Zero Dark Thirty, crocevia delle contraddizioni ideologiche degli Stati Uniti. Seguendo le tracce di quel percorso sulla storia parallela e/o rimossa di una nazione, Kathryn Bigelow e il suo sceneggiatore Mark Boal (nato giornalista, giova ricordarlo) rievocano gli scontri avvenuti nel distretto cinquant’anni fa, concentrando buona parte della narrazione sul massacro del Motel Algiers, dove la polizia sequestrò alcuni giovani neri e due ragazze bianche.
La cronaca ci informa che Bigelow tocca un nervo scoperto della coscienza americana, in un momento storico nel quale il rigurgito razzista si declina con una violenza che si sperava relegata ad un orribile ricordo. Ridurre, tuttavia, Detroit al parallelismo tra passato e presente, per quanto attendibile, non rende giustizia alla potenza di una regista abituata a riflettere sulla tensione in termini antropologici e con i precedenti lavori compone una sorta di trilogia sul conflitto (guerra interiore, guerra strategica, guerra civile).
Ma il problema non è teorico, perché film del genere reggono sul lungo periodo e rischiano, appena usciti, di essere troppo legati a letture transitorie. Su cosa si regge Detroit? Qui si ha l’impressione che funga da terapia collettiva dei bianchi liberal, confessione pubblica di reati non personali ma che coinvolgono i bianchi in quanto maggioranza silenziosa dunque complice.
Così, tutta la prima parte sembra apparire come un’ouverture emozionale al cuore del film. Si tratta del lungo, claustrofobico, insopportabile sequestro, un secondo atto in cui lo spregevole quanto realistico comportamento dei poliziotti bianchi è messo in scena con un’enfasi talmente didascalica da far percepire in qualunque momento la schematica costruzione di una sceneggiatura a tesi.
Bigelow appare ingabbiata nelle maglie di questo testo rigido che comunica l’impossibile redenzione bianca di fronte ad un’ingiustizia stabilita dal tribunale. L’ultima parte, infatti, accade dentro l’aula di tribunale e conferma l’andamento decrescente di un film talmente giusto e condivisibile nel dimostrare la tragedia da risultare banale per come mette in scena l’ideologia dell’indignazione. Le vere foto che inframmezzano la storia e appaiono nel finale rafforzano il sospetto di un film poco compatto e risolto.