Recensione: Assassinio sull’Orient Express

ASSASSINIO SULL’ORIENT EXPRESS (MURDER ON THE ORIENT EXPRESS, U.S.A., 2017) di Kenneth Branagh, con Kenneth Branagh, Tom Bateman, Michelle Pfeiffer, Johnny Depp, Willem Dafoe, Josh Gad, Daisy Ridley, Derek Jacobi, Judi Dench, Penélope Cruz, Leslie Odom Jr., Olivia Colman, Lucy Bointon, Sergei Polunin. Giallo. **

Nessuno, nel 2017, pretende la fedeltà assoluta ad un testo, specie quando a metterci le mani è un artista in grado di elaborare una lettura nuova o comunque diversa. Se costui è Kenneth Branagh, tra i massimi interpreti shakespeariani contemporanei, tanto meglio, specie considerando che negli ultimi dieci ha dimostrato di essere capace di offrire un punto di vista non banale ai differenti adattamenti che ha diretto (il remake del teatrale Sleuth, il cinecomics Thor, Jack Ryan – L’iniziazione da Tom Clancy, Cenerentola tra Perrault e Diseny).

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A posteriori, sembrava predestinato all’incontro con Agatha Christie, autrice che nonostante l’imperituro successo editoriale ha trovato raramente un’onorevole forma cinematografica (con l’eccezione del maestoso Testimone d’accusa). Solo Sidney Lumet seppe offrire qualcosa di davvero notevole, e il romanzo era lo stesso scelto per questo reebot di Poirot. D’altronde, l’omicidio del detestabile Ratchett su un vagone letto occupato da dodici persone ed impantanato nella neve è forse quello che meglio si offre alle congiunture spettacolari: coinvolgimento emotivo, risoluzione appassionante, cast all stars.

E la cosa migliore è proprio la reinterpretazione che Branagh compie del detective, con un approccio squisitamente teatrale che prevede l’utilizzo di vistosi, impossibili, credibili mustacchi di derivazione austroungarica, poco affini all’iconografia legata ai volti di Albert Finney (nel film di Lumet, anche lui con una vera e propria maschera) Peter Ustinov (per sei, smaliziate volte nei panni dell’investigatore belga), David Suchet (molto dandy nei novanta episodi della serie inglese) e perfino Tony Randall (bozzettistico in un isolato episodio americano).

Questi baffi raccontano con grande precisione la meticolosa cavillosità del personaggio e contribuiscono a depotenziare il realismo sempre poco affine a Branagh, conducendo il film in terreni consapevolmente ironici e disincantati che evitano – vivaddio – di prendersi sul serio pur trattando temi seri. Affidando alla faccia il compito di suggerirne il carattere, Branagh ha preferito incaricare Poirot di uno spirito atletico del tutto inusitato, ammiccando anche solo per ipotesi allo Sherlock Holmes di Guy Ritchie con l’illusione di ingraziarsi un pubblico più da blockbuster.

Ma i momenti in cui Poirot – che più che giovane appare fisicamente ringiovanito – appare come un marziale e ginnico supereroe contro il crimine sembrano non credere fino in fondo alla possibilità che un tale personaggio possa adeguarsi alla contemporaneità, cercando di evitare l’effetto un po’ stantio di altri gialli inglesi come Mistero a Crooked House.

Nell’occupare costantemente la scena, Branagh finisce per rendere Assassinio sull’Orient Express un palcoscenico per il suo personaggio, concedendogli un indicativo incipit turco, la passione per Dickens e un misterioso amour fou che, per quanto riescano a farci empatizzare con lui, contribuiscono a distoglierci l’attenzione dal caso.

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Chi conosce bene il testo sa che nell’adattamento di Michael Greene (altro adattatore: Lanterna verde, Logan, Alien: Covenant, Blade Runner 2049) sacrifica la natura corale della narrazione, concentrandosi davvero solo su determinati indiziati senza tuttavia definirne alcuno con risolutezza. Gli snodi, peraltro, sembrano adattarsi al casting politically correct e certe semplificazioni non aiutano i neofiti a percepire il senso di giustizia estremamente inglese, la rete di rapporti tra servi e padroni, la claustrofobia dell’inchiesta piena di depistaggi, il cuore di una tragedia non risolvibile come l’ennesima messinscena di consumati attori.

Senza rivelare altro, il film soffre dell’artificiosità espressa da Branagh attraverso una regia sontuosa ed intelligente (lo sguardo dall’alto durante la scoperta del cadavere, le visioni dal basso nel corridoio, gli specchi che sdoppiano e frammentano i volti) che raggiunge l’apice della sua problematicità proprio nel tableau vivant della rivelazione finale, dove tutti gli attori confermano l’idea di essere funzionali alla presenza di Poirot/Branagh, perdendo il capitale peso specifico che era in grado di comunicare il principesco cast del film di Lumet. Pur formalmente sfarzoso, sembra il pilot di una serie, come esplicitato dal finale che allude ad Assassinio sul Nilo.

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