HAPPY END (Francia-Austria-Germania, 2017) di Michael Haneke, con Isabelle Huppert, Jean-Louis Trintignant, Mathieu Kassovitz, Fantine Harduin, Franz Rogowski, Laura Verlinden, Aurélia Petit, Toby Jones. Drammatico. ***
Come altri film recenti, Happy End si muove dal privato per ragionare sullo stato delle cose del continente europeo. Il suo senso appare complementare e speculare al precedente Amour, con cui ha dichiaratamente un debito esplicitato dal personaggio di Jean-Louis Trintignant, chiamato in entrambi i casi Georges: lì anziano insegnante di musica chiuso nell’appartamento ad assistere impotente alla fine della moglie; qui patriarca di un’industria navale che tenta di scappare dalla sua grande villa per l’insostenibilità del vivere (un colpo al cuore: il protagonista de Il sorpasso che non riesce a morire).
Avvalorando la tesi del dittico, Micheal Haneke ne fa una questione di nomi: Isabelle Huppert, figlia di Trintignant lì e qui, si chiama Anne, come Emmanuelle Riva, sua madre in Amour. Ma in quest’ultimo film lei era Eve, che in Happy End è il nome della nipotina accolta in casa dopo la morte della madre. Nomi e spazi, perché siamo sempre in Francia, in questo caso la nordica Calais.
Come nel cinema portuale di Robert Guédiguian o in Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismaki, il mare diventa immagine di un’accoglienza obbligata dalla coscienza. In Happy End, si mostra fondamentale in almeno tre occasioni: la frana al cantiere, la passeggiata in spiaggia, il finale. Così finisce per diventare simbolo di uno svelamento che mette in discussione le certezze di un ceto sociale (economia, affetti, moralità), veicolato dalla presenza della piccola bambina.
Il personaggio di Eve apre il film imponendo un discorso sul dispositivo visuale del tutto coerente con la poetica della crudeltà di Haneke. I video e i messaggi col cellulare raccontano l’incapacità di empatizzare con un dolore che solo superficialmente può essere relegato al coming of age tra infanzia e adolescenza di una ragazzina travolta dagli eventi. Il freddo e formale legame con la zia Anne e la complicità con il nonno depresso rivelano una linea familiare dominata da una ferocia declinata secondo le rispettive contingenze anagrafiche ed umane.
In questa triade, il padre di Eve, figlio di Georges e fratello di Anne, è già esternalizzato dalla famiglia-impresa-ceto sia in quanto medico sia per una fragilità sublimata nella tensione verso l’avventura sessuale che nei parenti appare invece sempre subalterna ad un altro progetto di sopravvivenza. Anche lui si serve della tecnologia, ma la chat di un social network non è un altro indizio della sua inconciliabilità sociale? Nonché familiare, come dimostra la sostanziale indifferenza con padre e sorella, loro sì ipotesi perfida e altoborghese di Vi presento Toni Erdmann.
Com’è tipico del cinema di Haneke, il titolo può apparire beffardo ma in fondo allude a qualcosa di innegabile. Il lieto fine è anzitutto per la classe che racconta e seziona, incapace di suicidarsi per un istinto di conservazione che la rende ipocritamente interessata al triste destino altrui. Tutto molto a tesi, sviluppato con una programmatica attitudine all’apologo (moralista) che lo rende lecitamente freddo come la produzione-visione-ricezione di un video shock senza la consapevolezza del trauma, di un grottesco così ammiccante alla buona coscienza dello spettatore: forse un film che dimostrerà la sua tragedia sul lungo termine.