Recensione: Loveless

LOVELESS (NELYUBOV, Russia-Francia-Belgio-Germania, 2017) di Andrej Zvjagincev, con Maryana Spivak, Aleksey Rozin, Matvey Novikov, Andis Keiss, Marina Vasilyeva. Drammatico. *** ½

Alyosha soffre. Nessuno sembra accorgersi di lui. È nel crinale tra infanzia e adolescenza, ma non è questo il punto. I genitori si stanno lasciando. E male. Si odiano, o forse non si sono mai amati e, finito il percorso per emanciparsi dal passato ed esercitare le esigenze della carne, hanno deciso di chiudere con la vita. Peccato che quella vita, quel matrimonio, abbia generato un figlio, quasi un intralcio, un impiastro. Come rivendicare il dovere d’essere quando attorno tutto nega la tua possibilità di poter essere?

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Col suo titolo paradigmatico, Loveless parte da qui: una scomparsa che diventa un buco nero. Uno, nella memoria: c’è stata una vita felice prima che le foto appese sul frigorifero con le calamite fossero soltanto lontani ricordi? Due, nella presenza: possibile che la madre abbia dimenticato che ci fosse qualcuno nella stanza accanto? Tre, nell’economia degli affetti: come reagire alle reazioni del padre alla notizia del fatto, tra l’autocontrollo e l’indifferenza?

Al piccolo Alyosha, Andrej Zvjagincev dedica i primi dieci minuti, col senno di poi forse i più strazianti per il sfuggente, struggente bisogno di non essere omesso dalla storia. Prima lo fa improvvisando per lui l’avventura di un selvatico racconto di formazione, osando la sfida impossibile tipica del rito di passaggio. Poi lo rimette nello spazio ostile di una casa pronta ad essere venduta, quindi di fatto a precludergli il suo ruolo di figlio. Come un animale, lotta (invano) per difendere il proprio terreno.

Infine, prima di diventare una foto con cui tappezzare la città, lo ritroviamo nel buio, disperato, piangente, dimenticato. Per quanto ci riguarda, Alyosha finisce là. È una scena lancinante e lo sguardo di Zvjagincev è lapidario, spietato, crudele nel mettere in scena la criminale superficialità degli adulti. In un contesto umanamente gelido, esaltato dalla neve, la sua calorosa empatia è tutta per l’assente, facendola affiorare anche nel breve momento in cui il laconico amichetto dice e non dice ciò che non sa ancora dire.

Ma se il trauma infantile è di dolente evidenza, quello adulto – con l’eccezione della squadra di ricerca, baluardo di solidarietà più convincente della pur ligia polizia, che da subito pare capire come andranno le cose – lo modula nell’accordare drammaticamente il privato al pubblico. Mentre la nazione mette in atto azioni repressive e violente (siamo nel 2012, c’è la questione ucraina secondo i media russi), i genitori sembrano svolgere la pratica con un cinismo davvero inquietante, con lo smartphone a far da protesi fisica a corpi che reclamano il bisogno di essere altri da sé.

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Se il nuovo fidanzato della madre è a sua volta un padre impotente di fronte alla fuga volontaria della figlia, è addirittura devastante l’indifferenza della nuova compagna del padre, incinta e innamorata quanto basta per ignorare il dolore altrui. Da queste parti, ogni volta che si ha a che fare con un film russo si tende a cercare metafore: qui, tra immagini estetizzanti e macerie morali, tutto è calcolato proprio in funzione del parallelismo. Zvjagincev pretende da noi occidentali che lo sdegno verso questi disgraziati genitori (la nonna fanatica e paranoica!) inneschi quello politico. Esplodendo nell’agghiacciante finale in tutta la sua trasparenza.

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