Recensione: Star Wars: Gli ultimi Jedi

STAR WARS: GLI ULTIMI JEDI (STAR WARS: THE LAST JEDI, U.S.A., 2017) di Rian Johnson, con Mark Hamill, Carrie Fisher, Adam Driver, Daisy Ridley, John Boyega, Oscar Isaac, Lupita Nyong’o, Andy Serkis, Domhnall Gleeson, Anthony Daniels, Gwendoline Christie, Kelly Marie Tran, Laura Dern, Benicio del Toro. Fantascienza avventura. ****

Dopo l’intervento lucidamente restauratore di J.J. Abrams, teso a riannodare i fili di una memoria transgenerazionale nell’ambito di un progetto fortemente iconico (come accadde in Star Trek), la palla passa ad un autore novizio nel ragionare su e con i franchise. Tuttavia, Rian Johnson ha dimostrato nel precedente Looper una spiccata sensibilità nel coniugare i codici dell’action ai contraccolpi e i cortocircuiti spazio-temporali. Come lo Spielberg di Jurassic World, gli ormai grigi leoni della New Hollywood affidano l’estensione e il ripensamento del loro immaginario alle nuove leve del cinema indie, intuendo con loro un’affinità prospettica che ha a che fare con un disinvolto quanto devoto legame col passato – che qui si fa centro nevralgico della storia.

Naturalmente è ingenuo credere che George Lucas né tantomeno la Walt Disney non siano intervenuti nel lavoro di Johnson. È comunque interessante osservare come questo regista e sceneggiatore abbia scontentato la fandom con un film che sta scatenando polemiche e boicottaggi per una presunta infedeltà al canone unita a svariate questioni di inattendibilità narrativa e strutturale che volentieri lasciamo alle elucubrazioni dei fanatici.

Più de Il risveglio di forza, Gli ultimi Jedi – complice pure un titolo così programmaticamente terminale e crepuscolare – è cosciente di rispecchiarsi in una mitologia. Se il precedente episodio metteva in scena il ritorno alle origini per dichiarare la filosofia di un’operazione nostalgica ma non passatista, questa ottava puntata ragiona sul concetto di leggenda e leggendarietà.

L’abbiamo notato anche due anni fa: i personaggi di Rey e Finn da una parte e Kylo Ren dall’altra sono cresciuti nel mito di quegli eroi (e di quei cattivi) coi quali anche il pubblico è cresciuto. Sono i nostri rappresentanti dentro la storia ed agiscono per portarla altrove seguendo le tracce e l’ispirazione del passato. Johnson coglie in questo aspetto una delle chiavi per esprimere il suo punto di vista sulla saga, innescando il motore del racconto nel conflitto, nella crisi, nel dolore dei neofiti.

Ne Gli ultimi Jedi, costoro si misurano con la fragilità dello storytelling attraverso atti simbolici assolutamente emblematici. Lasciando perdere Finn, relegato ad una trama avventuresca dove la sua vivacità caratteriale è funzionale al discorso politico più evidente (la missione nel pianeta dei ricchi capitalisti ludopatici e sfruttatori), la questione riguarda soprattutto Rey e Kylo.

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La prima trova in Luke Skywalker un maestro riluttante, diffidente, scontroso, ferito a morte da un’irreparabile lacerazione nella quale collimano i tormenti personali, le problematiche familiari, la mitica percezione di se stesso da parte degli altri. La giovane ragazza gli serve per evidenziare la sua impotenza di fronte alla forza della narrazione: il momento topico più volte convocato (la frattura tra Luke e Kylo) è una verità presentata in modi diversi, soprattutto per sottolinearne la caducità.

Il secondo, d’altro canto, si palesa distruggendo violentemente la maschera imitativa del nonno Darth Fener. Il Leader Supremo ne esalta il suo Lato Oscuro nel rosso scarlatto di un non-luogo quasi astratto, capendo che l’unico modo per addomesticare il bene che c’è in lui è rafforzare il male, esercitando una paternità perversa e malvagia. Tra Ren e Kylo s’instaura un rapporto telepatico che li rende complementari, mettendo allo specchio due giovani disperatamente bisognosi di una guida. Ma se Ren è una figlia di nessuno alla ricerca di un posto nel mondo, Kylo è un parricida che ha letteralmente eliminato i suoi legami col mondo d’origine, costruendone di nuovi.

Il cuore pulsante de Gli ultimi Jedi è il desiderio. Tra Ren e Kylo si articola in un’attrazione sessuale abbastanza evidente e ovviamente repressa. Tra Kylo e Luke, nella vendetta consumante. Tra Luke e Leia, nella possibilità di poter essere come un tempo (l’apparizione dell’ologramma della giovane principessa). Tra Leia e Poe, nel ricordo di Han Solo a cui il gagliardo pilota allude e non poco. Tra Poe e Ren, nell’annuncio.

Ma è soprattutto il desiderio di un pubblico che vuole essere rassicurato, coccolato, sorpreso, addolorato. Privato progressivamente delle sue icone, vuole vederle in un ultimo spettacolo dove la plausibilità e la coerenza logica sono intralci nell’attività memorialisitico ed emotiva. Il volo di Carrie Fisher nello spazio magari non sta molto in piedi, ma come si fa a negare la straordinaria potenza visiva ed emozionale di questa ultima scintilla?

Certo che non tutto torna e anche il meno consapevole dei fans può esprimere dubbi e perplessità. Per non parlare dell’ormai contestatissima mossa del comandante Laura Dern (altra figlia d’arte, altra figura carismatica, altra icona)… e quindi? Ciò che molti non sottolineano quasi mai è la dimensione melodrammatica di Star Wars. In questo senso, l’incoerenza del comportamento del nuovo Luke è tutta ascrivibile alle conseguenze più oscure dei sentimenti (anche patriottici), spesso inspiegabili a coloro abituati a calcolare ogni passaggio.

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Se è vero che Gli ultimi Jedi è un film politico e religioso (i 12 Jedi, i testi sacri distrutti, l’evanescenza…) sul rapporto tra leggenda e realtà, mito e vita, allora questo episodio autoriflessivo e complesso diventa l’occasione per svelare la vertigine di un’opera-mondo che reitera scientemente il dolore del ritorno. Non a caso è un film di apparizioni (Yoda compreso), di corpi che svaniscono, si consumano, lievitano, risorgono: testimoni di una saga dalla struttura non-leggera che corre il rischio di prendersi libertà inusitate per un prodotto così radicato tra i radicalizzati.

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