Recensione: L’ora più buia

L’ORA PIÙ BUIA (DARKEST HOUR, G.B., 2017) di Joe Wright, con Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Ben Mendelsohn, Lily James, Stephem Dillane, Ronald Pickup, Samuel West. Storico biografico guerra. *** ½

In un film che nel titolo convoca le tenebre della Storia, una luce accecante irradia i momenti più privati. L’eccezionale fotografia è di Bruno Delbonnel, che ha subito intuito la dimensione teatrale con cui Joe Wrigth ha concepito L’ora più buia. È (anche) nel domestico che la politica trova, al cinema, un luogo per articolare il suo discorso retorico, promuovendo un’empatia col soggetto al centro della tempesta.

Qui Winston Churchill appare uscendo all’improvviso dal buio proprio grazie ad una luce: lo accende il raggio di un pallido sole primaverile, che filtra la finestra della sua stanza scoprendolo a letto, intento a banchettare la colazione a base di pancetta, uova, bourbon, sigaro. Un momento prima eravamo nella Camera dei Lord; ora siamo nella camera da letto; entrambe sono le sue camere.

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Dopo aver visto cadere Neville Chamberlain, inetto di fronte alla minaccia nazista, la liturgia politica dei gentiluomini diplomatici quanto pronti ad accoltellarsi si oppone con nettezza anche visiva alla dimensione terrena di Churchill, da loro designato di malavoglia alla guida di un governo di coalizione. Pur essendo un vecchio patrizio del ceto politico, il nuovo premier rappresenta il profilo più digeribile per l’opposizione e forse per il popolo. Lo vediamo spesso sulla tazza a defecare, a piedi scalzi per la residenza di Downing Street, in vestaglia probabilmente senza mutande: sarà anche una questione di forma, ma per uno che ha fondato tutto sull’oratoria è soprattutto una questione di forma.

Se la camera da letto è il suo camerino, la Camera è essenzialmente un palcoscenico. Per qualche secondo si ha perfino l’impressione che si apra un sipario. Il Churchill di Wright è un attore, il più grande attore di cui la nazione aveva bisogno in quel momento. Alla verità è preferita la leggenda. È giusto che sia Gary Oldman ad impersonarlo, perché L’ora più buia è una sontuosa messinscena dove la finzione è un elemento fondamentale per raccontare una storia vera.

Lo spettacolare Churchill di Oldman è una maschera: e sotto quelle protesi così perfette si percepisce tutta la potenza recitativa di un attore ex maledetto, emaciato e vissuto, giunto alla maturità necessaria per reinterpretare l’icona con spiritosa credibilità e – perché no – scaltro cinismo acchiappapremi (e se li merita tutti).

L’approccio di Wright passa attraverso la sua recitazione e l’uno si alimenta dell’invenzione dell’altro. Si potrebbe perfino dire che la maschera-Churchill gli dia l’assist per strutturare il film come un grande dramma teatrale dove a spadroneggiare sono la centralità dell’artificio, la disinvoltura retorica, la misura dell’enfasi.

A differenza del laconico ed immersivo Dunkirk, che racconta la medesima storia ma dalla prospettiva militare (evento che Wright aveva già affrontato in un memorabile passaggio di Espiazione), L’ora più buia è una danza che predilige la parola, il dialogo come dialettica dello scontro tra immagini e potere, la chiacchiera assurta a aggancio imprescindibile per giungere alle scelte più faticose.

Non ci interessa se effettivamente il primo ministro sia andato in metropolitana a sondare l’umore della popolazione e farsi consigliare sulle decisioni da prendere contro Hitler. Ci interessa, invece, l’abilità melodrammatica con cui Wright fa dialogare il corpo del potere con la massa più disponibile a lasciarsi suggestionare dal potente che si cala nella normalità per ricordarsi il senso di appartenenza ad una grande nazione.

Le sue lacrime di fronte all’audacia della bambina non sono altro che il dispositivo col quale – dopo averlo visto defecare, scolarsi litri di alcol, fumare mille sigari, flirtare con la moglie – cerca di legittimarsi agli occhi del popolo per rivendicare lo scarto coi colleghi che lo vogliono far fuori.

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Difficile dire quand’è che Dario Marianelli fermi il suo incessante commento musicale (forse mai), incalzando il mai inattivo Churchill a farsi carico di pesi sempre più gravosi: la ricchezza del film è tale da non lasciare un attimo di fiato, anche quando le figure di contorno – Re compreso – sembrano spossate nel ritagliarsi spazi di manovra dove costruire personalità oltre le indicazioni di sceneggiatura.

Va da sé che Oldman riempie la scena, ma è quel personaggio a dominare il mondo con la sua presenza (in fondo la pur splendida seconda stagione di The Crown è piaciuta meno proprio per l’assenza di cotanto comprimario…): però è nell’isolamento nel vuoto nero che trova la cifra della sua titanica inquietudine, quando Wright chiude il suo volto in una finestrella, il suo corpo in un ascensore, l’abbattuta siluette dopo la telefonata con Roosevelt in uno stanzino.

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