Recensione: The Party

THE PARTY (G.B., 2017) di Sally Potter, con Kristin Scott Thomas, Timothy Spall, Patricia Clarkson, Cillian Murphy, Bruno Ganz, Cherry Jones, Emily Mortimer. Commedia. **

Metti una sera a cena, un gruppo di persone – preferibilmente legate da amicizia, amore, relazioni inconfessate ed inconfessabili – in un interno – possibilmente borghese, molto borghese. Lasciate che si presentino attraverso dialoghi serrati, battute ad effetto, atteggiamenti caratterizzanti, comportamenti paradigmatici. Aspettate che s’inneschi qualcosa che faccia esplodere l’apparente serenità in un gioco al massacro. Siate spettatori complici.

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Ciclicamente, il kammerspiel si staglia nel panorama cinematografico come uno dei generi più efficaci nello svelare le perturbanti ipocrisie di una classe sociale abituata a mentire anzitutto a se stessa pur di sopravvivere. Solo nell’ultimo decennio, è tornato prepotentemente alla ribalta grazie ad alcuni film – buoni o meno buoni non importa – che si sono ritrovati a raccontare con abilità il declino di un ceto incapace di codificare il presente. Pensiamo ai fortunati Carnage, Cena tra amici, Perfetti sconosciuti.

È evidente: l’unità di spazio e tempo garantisce sulla carta una narrazione incalzante, capace di coinvolgere il pubblico grazie alle prove spesso incandescenti dei protagonisti, il susseguirsi di colpi di scena dove le verità sono tessere di un domino pronte a cadere, l’ammiccamento a suggestioni grottesche tra comicità e tragedia, la claustrofobia che impone a tutti di risolvere i problemi: e basta con lungaggini burocratiche, dice la disincantata Patricia Clarkson, spesso basta un colpo di pistola.

Proprio questo personaggio, un’americana ex idealista sposata ad un life coach tedesco preso da malie new age (Bruno Ganz), sta lì a ricordarci la fragilità di The Party, che si regge su attori a loro volta disperatamente bisognosi di un’impalcatura che sia non la schematica ed allegorica critica del Labour Party. Con ordine: finalmente nominata ministro ombra della salute, una laburista (Kristin Scott Thomas), sposata con un conciliante professore di storia romana (Timothy Spall), organizza un party a casa, al quale partecipano anche una coppia di femministe in attesa (Cherry Jones e Emily Mortimer) e il cinico marito banchiere della collaboratrice del neoministro (Cillian Murphy).

Sin dal titolo bidimensionale, capiamo che sono tutte figure emblematiche di un partito che forse non sa più cos’è, schizofrenico e smarrito, ripiegato su se stesso come in effetti è lo stesso film. Se i personaggi a loro modo hanno una ragione d’esistere, consapevoli del loro essere simboli di una crisi stratificata ed incomprensibile, distaccati dal mondo e alluvionati dal riflusso, è l’ensemble che non funziona: la metafora cannibalizzante è lampante dalla prima scena, il giro su se stesso snervante riesce ad essere ripetitivo nonostante la durata lampo.

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Poco più di un’ora e tuttavia incapace di emanciparsi dall’impressione di essere più sbrigativa che tagliente, una specie di atto unico dove è centrale la riflessione sul femminismo: «la sorellanza è un concetto superato» dice Clarkson, «mi sembrava che i maschi tutti stupratori fosse una fase che avevamo superato» fa Jones a Mortimer, mettendo a confronto posizioni sul genere mentre, sullo sfondo, Scott Thomas fa deflagrare la sua ambizione al crocevia di una passione (im)prevedibile. Gli uomini ci fanno una pessima figura, come da copione. Presuntuosetto, pretestuosetto.

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