Recensione: A casa tutti bene

A CASA TUTTI BENE (Italia, 2018) di Gabriele Muccino, con Stefano Accorsi, Carolina Crescentini, Elena Cucci, Pierfrancesco Favino, Claudia Gerini, Massimo Ghini, Sabrina Impacciatore, Gianfelice Imparato, Ivano Marescotti, Giulia Michelini, Sandra Milo, Stefania Sandrelli, Valeria Solarino, Gianmarco Tognazzi, Tea Falco. Commedia drammatica. **

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In fondo – anzi: in superficie – siamo sempre là: la commedia all’italiana. Ieri, oggi, domani. Per sempre. Una gabbia, una trappola accogliente, un’implacabile nostalgia. Cosa fare nel frattempo? Replicare, ripensare, ricordare per restare nei confini del già noto, del già visto. Cinema italiano: una grande famiglia. Parenti serpenti, panni sporchi. Quando non sa dove andare, la commedia – ma in realtà tutto il cinema – di casa nostra torna in famiglia. Per schiarirsi le idee e, al contempo, per buttarla in caciara. «E fatevela ‘na risata!» si dice spesso per lenire l’imbarazzo della frattura.

Ora è il turno, ancora una volta, di Gabriele Muccino. Che, nella fase forse più problematica della sua carriera, torna in patria, atteso al varco da una critica mai troppo clemente e da un pubblico desideroso di riconciliarsi con un genere molto italiano, già frequentato da Muccino nel “dittico dei baci”. Definiamolo dramedy corale: grandi gruppi (famiglie, amici: che differenza fa?), grandi amori, grandi bugie, grandi litigate. In più, non solo talvolta ricalca le biografie degli attori e di antichi personaggi (vedi Stefano Accorsi o Pierfrancesco Favino ancora represso fragile conservatore), ma soprattutto si collega ai precedenti Come te nessuno mai e Ricordati di me richiamando il cognome Ristuccia e i nomi Paolo e Carlo: insomma, tutto torna. Forse.

In questo senso, A casa tutti bene è uno scannatoio familiare totalmente mucciniano, che nel titolo cita il Tornatore antifrastico di Stanno tutti bene (genitori che s’interrogano sulle vite segrete dei figli), nelle grandi tavolate accarezza i cliché di Ozpetek, nello svelamento dei grandi non-detti così evidenti strizza l’occhio ai Perfetti sconosciuti (e in sceneggiatura c’è l’intervento di Paolo Costella, già autore del film di Genovese)… e chissà quanto altro. E un cast così affollato suggerisce l’idea che si tratti davvero di un film programmaticamente pensato per essere perfino un film importante.

Da almeno vent’anni, quando frequenta questo universo borghese fatto di incomprensioni, ipocrisie, idolatrie, repressioni, Muccino cerca incessantemente di accreditarsi come un legittimo erede della tradizione della commedia all’italiana. Ma se, per esempio, in Paolo Virzì è qualcosa di congenito, maturato e per certi versi superato nel tempo, Muccino sembra limitarsi sulla superficie del citazionismo, e alla pari dei suoi personaggi – (non) cresciuti con lui – cerca un appiglio per sopravvivere nel e al grande avvenire dietro alle spalle.

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Come in Baciami ancora, c’è il fantasma di C’eravamo tanto amati, qui evocato da qualche battuta messa in bocca a Gianmarco Tognazzi («ma co’ che tono l’ha detto?»). Personaggio che a sua volta cita il babbo Ugo, guitto patetico in Io la conoscevo bene. Dove c’era Stefania Sandrelli, che assieme a Sandra Milo ci trasmette un inusitato brivido di Pietrangeli. E nel momento in cui Sandrelli e Ivano Marescotti si ritrovano in cucina dopo che tutti se ne vanno ecco La famiglia, così come nell’epilogo coi saluti che richiama paro paro, montaggio compreso, l’ingresso degli invitati al compleanno nel finale. Ed Ettore Scola è davvero nume tutelare, già annunciato dalla foto di gruppo con parenti che spesso non si conoscono: le presentazioni iniziali al molo, ma anche lo zio Massimo Ghini e i nipotini.

Facile: per Ghini, precocemente ammalatosi di Alzheimer, sono tutti perfetti sconosciuti. Sandrino, lo chiamano, assieme al fratello Riccardino, come se non fossero mai cresciuti, e come se mamma Milo citasse a sua volta i vezzeggiativi cari a Fellini. Ma è forse nel suo sguardo struggente – nella memoria che rimuove, simbolicamente fermatasi al momento in cui nella sua famiglia tutto sembrava essere tranquillo – che possiamo trovare le coordinate per orientarci in un film che vive di un passato cannibale. «A me la famiglia sta sul cazzo!» sbraita il povero Marescotti.

Tanti ricordi, nessuna memoria. Ognun per sé e dio (patria, famiglia) con tutti. E dopo una cantatina nostalgica, tutti urlano, vomitandosi addosso tutto ciò che il presente non sa tollerare del passato ingombrante. Qual è il problema? Il problema è che Muccino ha tanti (troppi?) personaggi che sarebbero perfetti un gioco di società, per un dieci piccoli indiani all’ischitana. Li isola dal mondo con l’espediente di una tempesta shakespeariana, li mette in condizione di potersi far fuori e accumula drammi perché – forse – non sa come uscirne.

Perché uscirne? Muccino non vuole dare pace ai suoi disperati. Ma l’impressione del giro a vuoto è notevole. Paradossalmente, in A casa tutti bene manca davvero il senso di una coralità. Quasi tutti sono dentro un meccanismo narrativo standard: sorrisi tirati, rabbia montante, esplosione sbraitante. Tutto come previsto. E chi resta fuori dal processo? Se non ha una storia come quella di Ghini, cade nel ridicolo: è il caso del remake amoroso dei cugini Stefano Accorsi ed Elena Cucci, quarantenni che sarebbe ingeneroso definire adolescenziali.

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Comunque, tranquilli, tutto è coperto: la crisi di mezz’età, i tradimenti negati, la malattia, la vecchiaia, la crisi economica, la friendzone, la borghesia arricchita, il matrimonio, le scene primarie, Berlusconi, i comunisti. La grande casa sembra essere troppo piccola, ma più che claustrofobia c’è horror vacui. Guerra totale tra personaggi che occupano gli spazi senza armonia, addirittura si strappano i capelli. Gli attori? Ovvio che sono tutti sfacciatamente bravi (Tognazzi, Ghini, Giulia Michelini su tutti). Ma poi? E così l’ambizione al grande affresco roman(tic)o collettivo si riduce al selfie pieno di filtri di traumi mal scritti.

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