Recensione: Figlia mia

FIGLIA MIA (Italia-Svizzera-Germania, 2018) di Laura Bispuri, con Valeria Golino, Alba Rohrwacher, Sara Casu, Michele Carboni, Udo Kier. Drammatico. **

Mai come negli ultimi tempi molti film italiani hanno rimesso al centro il femminile. In Figlia mia – che peraltro è diretto da una regista – le due protagoniste ripropongono il confronto, non scevro di conflittualità, tra due figure il cui unico elemento in comune è una personale declinazione della maternità. L’istinto totalizzante di Tina è la misura dell’inadeguatezza di Angelica, che ha dato la propria figlia in fasce all’altra donna. Nel suo dono non c’è niente di altruistico, anzi.

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Come ne L’intrusa di Leonardo Di Costanzo, le due donne sono madri (in quel caso, la moglie di un camorrista e la responsabile di un centro sociale, che madre lo è a livello gerarchico, ideale, spirituale) che non parlano la stessa lingua ma sono entrambe espressioni del territorio. E come in Vergine giurata, quello di Laura Bispuri si conferma un cinema teso ad occupare gli spazi, qui una Sardegna arida e marittima, che rotola dalle montagne per sguazzare verso l’oceano.

Angelica è un’esclusa, un’anima dannata – come dice Tina alla figlia (di entrambe) – in contrasto con la devozione antica di Tina, quasi una ipotesi di Vergine sia per il sostanziale annullamento della dimensione sessuale sia per le circostanze particolari con cui riceve la figlia. A suo modo, però, è una martire: la voracità sessuale, l’alcolismo, la precarietà economica sono le prove che deve superare per arrivare la redenzione. E ha bisogno proprio di Tina, che portandole la figlia Vittoria le impone un riconoscimento che interroga i limiti del suo stare al mondo.

Purtroppo Figlia mia rivela abbastanza presto i limiti del suo immaginario, con un incipit che incrocia il nuchismo tipico di troppi emuli dei Dardenne con un approccio superficiale al mondo che intende rappresentare. Le affinità con Alice Rohwracher – l’adesione totale ad uno sguardo infantile, la sensibilità per il periferico selvatico, un’antica fiducia nel realismo – terminano laddove i topoi si fanno stereotipi.

C’è la Sardegna, una terra che L’Accabadora di Enrico Pau ci ha riconsegnato nel suo epico e mitico mistero e di cui Accabadora di Michela Murgia ha eternato, anche presso noi del continente, quel concetto dei “bambini generati due volte” assai affine al film di Bispuri. Ma qui, filtrata dalla manierata fotografia di Vladan Radovich, non sa mai farsi davvero personaggio dialogante con i suoi abitanti. Bispuri preferisce delegarle il ruolo di rifugio simbolico di una trama, fondata su personaggi fondamentalmente piatti, dove ogni passaggio intende dimostrare il teorema alla base dell’impalcatura del film.

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Fino ad un certo punto le tre attrici riescono a portarselo sulle spalle: essenzialmente, scontano una sceneggiatura discontinua. E nel finale liberatorio il film finisce per depotenziare il rito di passaggio attraverso facili simbolismi e un sostanziale quanto ambiguo volemose bene. Due cose: anche basta con la tassa da pagare al pop con la solita ruffianata della canzone anni ottanta (qui c’è Questo amore non si tocca di Gianni Bella); che spreco Udo Kier (ah, i doveri di coproduzione).

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