LA CAMERA AZZURRA (LA CHAMBRE BLEUE, Francia, 2014) di Mathieu Amalric, con Mathieu Amalric, Léa Drucker, Stéphanie Cléau, Mona Jaffart, Laurent Poitrenaux. Mélo. *** ½
La sterminata opera di Georges Simenon – che il catalogo dell’Adelphi provvede a pubblicare con una regolarità forsennata almeno quanto la prolificità dello scrittore – si presta quasi sempre a sviluppare discorsi che, partendo dalla forte tensione narrativa data dallo stile limpido e trasparente, offrono occasione per misurare la capacità perturbante del cinema. Pensiamo, per esempio, agli splendidi L’orologiaio di Saint-Paul di Bertrand Tavernier e I fantasmi del cappellaio di Claude Chabrol.
E pensiamo proprio a quest’ultimo regista di fronte a La camera azzurra, che Mathieu Amalric ha scelto di trasporre nell’attesa di portare sullo schermo Il rosso e il nero di Stendhal. Operazione quasi catartica: prima di poter tuffarsi nel grande ed arioso romanzo storico, ecco l’immersione in un claustrofobico racconto breve e spietato come il miglior cinema di Chabrol. Verrebbe quasi da sottolineare la dimensione terapeutica di Simenon nel fornire occasioni così interessanti ed importanti.
Arrivato in Italia solo ora e in home video, a quasi quattro anni di distanza dalla presentazione a Cannes, La camera azzurra è uno di quei film che riconcilia col piacere del cinema come atto creativo disposto a conficcarsi nelle ferite forse rimarginate dei nostri sentimenti rappresi. Più che un film, una lama ben arrotata: correlativo oggettivo dell’amour fou che ricorda e resuscita i fantasmi delle struggenti, devastanti catabasi emotive di un capolavoro come La signora della porta accanto di François Truffaut.
Non è solo per la durata lampo (poco più di un’ora: e tanto basta per restarne avvinti), ma anche per i 4:3, un formato che oggi, all’epoca dell’alta definizione e degli schermi mutevoli, ha trovato una nuova ragione d’esistere per comunicare il dolore irreparabile ed inesorabile di uno spazio chiuso ed asfissiante.
Si declina così una storia di amore e morte tra amici d’infanzia che coreografa nel sesso il bisogno della fuga dal quotidiano e nel processo l’inevitabile conseguenza di una parabola passionale che sconta un attaccamento al passato che ferocemente impedisce una vera visione di futuro lontana che non sia l’orizzonte di un’ossessione senza via d’uscita. Amalric si mette in gioco in prima persona: e nel labbro martoriato dai denti, col sangue rappreso che si collega alla goccia che cade sul lenzuolo nell’incipit, trova l’immagine perfetta per rappresentare il nervosismo, la tensione, l’ansia di un uomo al limite.