Recensione: Un amore sopra le righe

UN AMORE SOPRA LE RIGHE (MONSIEUR & MADAME ADELMAN, Francia, 2017) di Nicolas Bedos, con Doria Tillier, Nicolas Bedos, Denis Podalydès, Antoine Gouy, Christiane Millet, Pierre Arditi, Julien Boisselier. Commedia sentimentale. *** ½

A voler dare retta al titolo italiano dovremmo aspettarci un bizzarro love affair. Ovviamente il suo triste umorismo nasconde una versione originale ben più ficcante. Problemi della questione onomastica: benché ci venga presentato con il cognome Adelman, ben presto scopriamo che quello vero di Victor è de Richemont. In realtà è un dato che ci sfugge e che rifulge in tutta la sua evidenza solo quando la narrazione si scioglie in una linearità altrimenti inimmaginabile.

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Siamo nei pressi del puro cinema classico: al funerale di un grande scrittore, accademico di Francia, mentre tutti piangono e covano futili dubbi sulla misteriosa morte dell’anziano signore, la vedova Sarah si chiude nello studio con l’ennesimo giovane biografo del caro estinto, che vuole raccontare la vita di Victor attraverso le persone che l’hanno circondato, per capire le influenze sulla sua opera. La disinvoltura con cui la signora si offre ci fa capire quasi subito che non aspettasse altro che comunicare quanto lei stessa abbia influito sulla vita – dunque l’opera – del marito.

Lungo i quindici capitoli di questa specie di autobiografia altrui, conosciamo una narratrice che racconta una storia negata dalle immagini: specialmente all’inizio, le parole della mitologia amorosa si scontrano con fatti spesso miserrimi che smentiscono la costruzione venduta dalla signora. Inattendibile? Forse. Anzi: consapevolissima. Niente in ciò che dice è lasciato al caso, compresa la progressiva sincerità che col passare degli anni fa coincidere la rievocazione orale alla ricostruzione cinematografica.

Solo in alcuni passaggi ritorna a flirtare con la menzogna, ma la figura che maggiormente frequenta è un’altra: la reticenza. Sarah Adelman mette in campo molto di se stessa, compresa una sregolata parentesi tossica; e, al contempo, lascia che quel sorriso che vale la felicità (o tutti i libri scritti dal marito, è uguale) mascheri l’ambiguità di una donna tanto innamorata quanto cosciente dei limiti di un amore straordinario. Che sia lei, la musa, a gestire davvero la matassa esistenziale e professionale del creatore?

Niente di nuovo, in fondo: spesso chi produce, crea, ripensa la realtà sa che senza la fonte o l’ispirazione non è in grado di mettere due parole in fila. Al contempo, non è semplicemente un’altra parabola su chi ci sia dietro un (grande) uomo. Un amore sopra le righe si alimenta di questa consapevolezza lavorando con grande sagacia dentro le pieghe di un rapporto di strettissima dipendenza, seguendo la via di una storia d’amore che è anche – o soprattutto – la storia di come si scrive una storia: vivendo al massimo una vita che è un romanzo.

Sì, Victor legge ciò che lo circonda attraverso i filtri della letteratura (la madre come rediviva e fallimentare Madame Bovary, il figlio che non corrisponde al desiderio paterno di poter essere un novello Proust e che non sa cercare ciò che ha perduto o forse mai avuto…), ma è Sarah a formarne, volente o nolente, la prospettiva, introducendolo innanzitutto al mondo ebraico. E proprio in questo solco Victor trova il suo posto nel mondo: emancipatosi dalla decadente e reazionaria alta borghesia terriera, diventa chi non è (un ebreo) se non per emanazione amorosa, costruendo agli occhi degli altri l’immagine alternativa di un sé altrimenti impossibile.

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In questo senso Un amore sopra le righe è anche la messinscena di un amore che ottimizza la vaga dimensione teatrale per sviluppare baluginii di kammerspiel e lasciar fluttuare l’intimità di un sentimento negli spazi meno ostili. Non a caso, quando parte il secondo tempo del loro amore si trovano in una (non)casa fredda, dove l’unico elemento caldo è un souvenir del passato. Tra l’altro qui c’è uno scambio di sguardi, che si conclude con un dolce imperativo, in grado di trasmettere lo schietto e cerebrale erotismo di due corpi che evidentemente si piacciono.

Certo, magari c’è troppa roba, l’accumulo di stagioni funziona sul piano della dilatazione – e, va da sé, la cavalcata nel tempo dentro la rapsodia amorosa è sempre un colpo al cuore – ma rischia di affastellare luoghi comuni senza dire mai niente di autentico sulle epoche raccontate. Forse c’è qualche schematismo nella narrazione, forse il colpo di scena è un po’ telefonato, forse c’è qualche minuto di troppo, forse l’ironia eccede rispetto al mélo (e meno male). Ad avercene.

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