TONYA (I, TONYA, U.S.A., 2017) di Craig Gillespie, con Margot Robbie, Sebastian Stan, Allison Janney, Bobby Cannavale, Julianne Nicholson, Paul Walter Hauser. Biografico grottesco. ****
Film prismatico e a suo modo epitome pur senza la pretesa di fare data o entrare nella storia, Tonya sacrifica nel titolo italiano quel pronome personale che interrogava un’intera nazione. Benché non fosse la figura simbolicamente più emblematica di un american dream da far consumare al mondo (dunque all’America), Tonya Harding ha svelato le contraddizioni, i conflitti, le ipocrisie, le vanaglorie di un popolo che si disegna meglio di quanto effettivamente sia: dire I, Tonya significa rispecchiarsi in una storia tanto singolare quanto allegorica.
In un certo senso, Tonya dimostra quanto certo cinema americano stia a poco a poco recependo con sensatezza gli stimoli della recente lunga serialità (specialmente quella antologica). Lo metto accanto ad altri biopic: Foxcatcher, La battaglia dei sessi, Joy. Non è un caso che siano proprio le “storie vere” i punti di partenza privilegiati in questa fase: a partire da eventi spesso molto noti, si sviluppano narrazioni che scompaginano le certezze della cronaca fattasi storia e dilatano lo sguardo per scandagliare un contesto ben più ampio.
Senza girarci attorno, Tonya – forse – non sarebbe possibile senza la consapevolezza di una serie come American Crime Story, che al centro della prima stagione presentava dieci puntate attorno al caso di O. J. Simpson. Lo sappiamo: l’omicidio per cui fu accusato costituisce l’occasione per ragionare su razzismo e società dello spettacolo, pregiudizi e sistema giudiziario. Grazie a quel fondamentale passaggio (e i primi vagiti del circo mediatico su quel caso si vedono significativamente nel finale), un film come Tonya riduce ovviamente la durata ma non la qualità di un racconto finalmente magmatico e rapsodico.
È cosa nota: Tonya, tra le massime pattinatrici dello sport americano, e suo marito furono accusati di essere i mandanti dell’aggressione a Nancy Kerrigan, principale rivale per un posto nella squadra olimpica. Attorno a questo famoso e sconvolgente caso mediatico, la sceneggiatura di Steven Rogers costruisce una sorta di inchiesta con interviste nella forma di un finto documentario in cui la verità è per definizione un punto di vista. Operazione molto rischiosa, perché in patria il caso è tutt’altro che risolto nonostante le condanne, e la stessa Harding non ammette la colpevolezza.
Vengono così interpellati la madre, il marito, il di lui amico, un giornalista, l’allenatrice: tutti chiamati a determinare non tanto un’inafferrabile oggettività quanto piuttosto i frammenti di un discorso antropologico su un mondo periferico, quasi rurale, brutto sporco e cattivo, dove il proletariato sopravvive a quotidiane violenze domestiche, nell’attesa di sbarcare il lunario più per stanca devozione a certi miti nazionali che per un’effettiva fiducia nelle proprie capacità.
Le testimonianze del coro permettono di incastrare tasselli utili a comporre un mosaico che sembra quasi avere come pretesto la storia di Tonya per tracciare un sussidiario degli ordinari orrori dei reietti della società. E se attraverso l’imponente presenza bestiale della madre scorgiamo un’incapacità affettiva mascherata da inquietante disprezzo (spettacolare Allison Janney in un ruolo da brividi), è nello sguardo allucinato di Shawn che Craig Gillerspie indovina la mitomania come grande non-detto dietro l’ambizione per capire quello che è quasi un case history.
E molte lodi vanno avanzate all’abilissimo montaggio di Tatiana S. Riegel, che dona un’artificiosa quanto armoniosa autenticità sia alle pazzesche figure artistiche rese credibili dagli effetti digitali (che applicano la faccia della comunque stupefacente, oscura, impenetrabile, straordinaria Margot Robbie ai corpi di provette danzatrici) sia alla fluidità di un racconto frastagliato e fatto a brandelli per sembrare una narrazione che è un po’ un rotocalco di cronaca nera, un po’ un feuilleton confinante col grandguignol, un po’ commedia popolare sulla stupidità come prassi, un po’ lato grottesco di quell’epoca a cavallo tra gli ultimi vagiti reaganiani e i primi bagliori clintoniani.
Forse perde quota nella seconda parte, forse non c’è davvero niente di nuovo, forse l’idea di una colonna sonora distonica è cotta, forse è tutto molto derivativo e già visto, con gli sguardi in macchina, le verità che negano se stesse, gli echi della Nouvelle Vague, i disordini temporali, i ralenti scorsesiani… ma Tonya è un film talmente vertiginoso, indovinato, folgorante (o folgorato) e perfino ruspante da far passare in secondo piano ogni dubbio.
[…] Tonya di Craig Gillespie. Voto: 8 ½ […]
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