Far East Film Festival 20 | Recensione: Side Job.

SIDE JOB. (KANOJO NO JINSEI WA MACHIGAI JANAI, Giappone, 2017) di Hiroki Ryuichi, con Tamae Ando, Tokio Emoto, Ena Koshino, Kengo Kora, Ken Mitsuishi, Kazuki Namioka. Drammatico. ** ½

Dopo lo tsunami del 2011 e il disastro nucleare di Fukushima, padre e figlia vivono in un alloggio provvisorio assieme ad altre espressioni di varia ed umana disperazione. Mentre lui non ha ancora elaborato la morte della moglie e ammazza il tempo giocando alle slot, lei fa l’impiegata e, nel weekend, va a Tokyo per prostituirsi.

 

All’origine di Side Job. c’è un romanzo dello stesso Ryuichi Hiroki, il cui titolo tradotto significa La sua vita non una colpa. Nello sguardo di questo prolifico e versatile, sempre coerente col proprio cinema umanista, c’è un’indulgenza nei confronti della sua tormentata protagonista che confina con una compassione che non somiglia mai alla commiserazione: un sentirsi in prima persona dentro la sofferenza che è cifra caratteristica del pensiero di Hiroki.

Ci sono momenti, spesso immagini, lampi, a volte sequenze, che trasmettono con precisione il senso di una tragedia collettiva riflessa nelle esperienze dei singoli, scopertisi incapaci di affrontare il trauma se non ripensando ad un passato impossibile da rivivere (le foto della mostra, gli edifici presenti in quanto assenze) o ipotecando il potenziale futuro ostaggio di drammi inconciliabili con la speranza (i tentati suicidi, le depressioni irreversibili).

La speranza la si scorge in un bambino desideroso di tessere relazioni che ricordino un rapporto padre-figlio o richiamino le figure familiari a dare fiducia alla vita che comunque deve andare avanti. L’occhio di Hiroki filtra la drammatica responsabilità percepita dalla comunità – e traslata nell’esperienza personale della protagonista – attraverso un linguaggio in bilico tra uno straniante esistenzialismo e un’empatia declinata sull’utilizzo documentaristico della camera a mano.

Risultati immagini per kanojo no jinsei wa machigaijanai

Il problema è che l’eccessiva durata del racconto lascia perplessi sul tono ora cronachistico ora rapsodico di un racconto che vorrebbe essere romanzo (o viceversa), immolato ad una spinta verso l’erotismo più squallido (leggi: pornografico) facilmente usato in dialogo con la tristezza desunta dalla narrazione etnografica sia del paesaggio postatomico sia della metropoli dove i rapporti umani sono regolati da relazioni economiche. Un lirismo crudo ma anche troppo calcolato verso la metafora della disgrazia naturale dunque umana.

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