Non era una grandissima selezione, quella del Festival di Cannes del 2004, pur con alcune proposte decisamente buone (Clean, Nessuno lo sa, Oldboy, Le conseguenze dell’amore, Tropical Malady, 2046). Ad ottenere la Palma d’Oro fu uno dei due documentari in concorso (l’altro era Mondovino), a quasi cinquant’anni dalla vittoria de Il mondo del silenzio, e toccò a Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, reduce dall’Oscar di categoria per Bowling a Columbine.
Sulla Palma ci sono indubbiamente le impronte di Quentin Tarantino, vulcanico presidente di giuria incapace di mediare, che capì l’importanza di assegnare ad un film del genere un premio così importante, anche per lanciare un polemico messaggio all’amministrazione americana, impegnata nella disastrosa guerra in Iraq. Magari oggi una scelta di questo tipo può sembrare ininfluente nel dibattito, ma all’epoca Moore era davvero una seguitissima icona dell’opposizione militante.
Disanima sul profilo di un presidente, Fahrenheit 9/11 parte dall’inizio, ovvero dai brogli elettorali che – come sappiamo – portarono George W. Bush alla Casa Bianca con la complicità del fratello governatore. Nata sotto la stella dell’inganno, una presidenza fatta di golf e caccia, nel torpore di una nazione che non sa elaborare quell’elezione e le cui sofferenze sono pressoché ignorate dalle politiche dell’amministrazione, subisce il colpo dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.
Qui Moore sfodera uno degli attacchi più spietati: limitandosi ad osservare il momento in cui, in visita ad una scuola elementare, Bush apprende la notizia dei due aerei schiantati contro le torri, il regista – che si serve di un filmato altrui – mette in scena un uomo incapace di reagire, muto per svariati minuti, capo-fantoccio di un popolo ferito a morte. A partire da quest’immagine sconvolgente, la cronaca di una guerra annunciata contro un nemico individuato nella figura di Osama Bin Laden.
Da qui, l’esplosivo Moore affila tanti interrogativi: quali sono i veri legami tra la famiglia Bush e Bin Laden? Che ruolo ha avuto Bush senior, ai tempi della presidenza, nella gestione di questi rapporti? Come sono nati? Che interessi hanno? Se questi interessi esistono, perché si è deciso di intraprendere una guerra così inutile e nociva? E, allora, quali sono le vere ragioni della guerra in Iraq? Le risposte ci sono, trovate tra le abbondanti informazioni accumulate.
Al di là dell’approccio sensibile ad un tema (all’epoca) così incandescente, un film come questo si appoggia totalmente sulla credibilità dell’autore, anche in virtù del suo carisma e dell’ostinato esercizio del dissenso nei confronti di Bush. Fahrenheit 9/11 nasce sì per raccontare i motivi di un’impresa disgraziata, ma anche – innegabilmente in funzione elettorale – per concentrarsi su un uomo politico inadeguato e pericoloso.
Tuttavia, nel tracciare lo spaccato di una giovane nazione chiamata alle armi per combattere il terrorismo, Moore non si dimostra all’altezza del dramma al contempo privato e collettivo. La troppa carne al fuoco gli fa perdere la bussola di un racconto che, a poco a poco, depotenzia il fattore umano per focalizzarsi con maggiore asprezza sulla satira politica.
Camminando su un filo fragile che solo parzialmente si tiene grazie alla solidità del suo pensiero, Moore, che sa benissimo cosa vuole e dove vuole arrivare, è disposto a tutto pur di raggiungere il suo scopo, anche a costo di essere sgradevole. È certamente una scelta emozionante quella di intervistare la sua concittadina Laila, mamma di un soldato caduto nel conflitto, ma allo stesso tempo non si viene mai abbandonati dall’idea di una certa strumentalizzazione del dolore.
Il doppiaggio forse sottolinea un po’ troppo le cadute di stile, come la poco convincente discussione con la sostenitrice della guerra a Washington, ma è un problema di sceneggiatura, didascalica ed eccessivamente tesa a spiegare ciò che le immagini espongono con impressionante efficacia. Un film più importante che bello, più giusto che riuscito, più utile che necessario, e che ad onor del vero non regge molto la prova del tempo. Incassò più di duecento milioni di dollari: un record insuperato per un documentario. Zeitgeist.
FAHRENHEIT 9/11 (U.S.A., 2004) di Michael Moore. Documentario. ** ½