RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI (Italia-Polonia-Svizzera-Albania, 2018) di Antonio Morabito, con Marco Giallini, Claudio Santamaria, Jerzy Stuhr, Flonja Kodheli, Agnieszka Zulewska, Leonardo Nigro, Peppino Mazzotta, Maddalena Crippa, Giorgio Gobbi, Paolo De Vita, Evita Ciri. Drammatico. ** ½
disponibile su Netflix
Lo schema, in apparenza, sembra quello di Loro chi?, una delle commedie meno banali degli ultimi anni: è quello di una educazione al crimine. C’è Marco Giallini, con quella faccia carismatica di chi dalla vita ha preso molte batoste e ora chiede il conto sapendo di soffrirne, a rappresentare una guida carismatica dall’anima nera, sulla falsariga di tutto ciò che un tempo avrebbe potuto incarnare, con supremo gigionismo, un Vittorio Gassman tenuto a briglia sciolta.
E, a sostituire Edoardo Leo, c’è Claudio Santamaria, con gli occhi liquidi della vittima designata, l’aria dimessa di chi ha conosciuto giorni migliori. Come in quella commedia, c’è l’incontro non voluto né cercato tra un maestro e un allievo. Disoccupato e soffocato dai debiti, il personaggio di Santamaria decide di saldare il passivo lavorando gratis per una finanziaria che compra i debiti insoluti delle banche.
Per insegnargli il delicato mestiere del recupero crediti, gli mettono accanto un professionista del settore, entrato nel giro partendo dalla stessa condizione del novello esattore. Rimetti a noi i nostri debiti vorrebbe essere una cinica e spietata commedia (all’italiana) ma non ne ha né il coraggio né tantomeno la voglia. È un bene che esca direttamente in streaming, bypassando il passaggio in sala ed evitando così un prevedibile bagno di sangue, nonostante la presenza di due attori (specialmente Giallini) che, bene o male, possono contare su un buon seguito.
Se pensiamo che il mediocre The Place è stato letto come una controversa ed implacabile parabola sul potere, possiamo solo immaginare la fruizione che avrebbe potuto avere questo film troppo respingente per essere accolto come un utile pugno nello stomaco (c’è qualche ricattuccio di troppo) e troppo timido per essere accettato al pari di un apologo acido e terribile su una delle grandi piaghe (nascoste) del nostro tempo (c’è qualche eccesso moraleggiante di troppo).
Lasciare che faccia il suo corso su Netflix è un modo per proteggere un film difficile e discutibile ma che perlomeno osa mettere il dito nel marcio di un mondo che accumula miserie umane e peli sullo stomaco, diretto, non a caso, da un vero otusider, che dopo il minimo riscontro ottenuto dal debole eppure rispettabile Il venditore di medicine può qui contare su un budget maggiore, assicurato da Rai Cinema e dai rampantissimi Leone.
Prodotto con una certa cura estetica, senza rinunciare ad uno sguardo ai mercati esteri vista l’apolide eleganza formale (la tenebrosa fotografia di Duccio Cimatti) e suggerita dalla variegata coproduzione, attraversato da comprimari ben utilizzati (su tutti Maddalena Crippa e Peppino Mazzotta) è un interessante thriller civile reso sontuoso dai riferimenti spirituali messi in campo sin dal titolo ma di cui è leggibile senza difficoltà lo schema programmatico (il pur singolare personaggio di Jerzy Stuhr) su cui s’incardina la sua escalation verso l’inferno.