Riso amaro. Le sedicenni. Le mura di Malapaga. Stasera ho vinto anch’io. Atto di violenza. Amaro destino. Giusto per fare qualche titolo, tra quelli presentati al Festival di Cannes del 1949. Ma niente: oggi come allora – a parte qualche film rimasto iconico – non poterono niente di fronte a Il terzo uomo, un capolavoro che, grazie al suo ineccepibile e geniale funzionamento, anche a distanza di quasi settant’anni non perde un grammo del suo fascino malato.
A volerci riflettere su, ci si potrebbe chiedere dove sia il suo segreto. Forse nella Mitteleuropa, con la fosca e tetra atmosfera di un mondo senza bussola, disorientato dalle sue inesauribili divisioni culturali e politiche, che trova eterno emblema nella Vienna sconvolta dal secondo conflitto mondiale, che nasconde sotto la città ufficiale una città nascosta fatta di fogne, passaggi segreti, anfratti segreti e pericoli in agguato?
O forse nel momento storico, caotico e confuso, col senno di poi molto chiaro ma che all’epoca poteva solo suggerire le traiettorie della Guerra fredda, al crocevia geografico di una frontiera dove nessuno deve fidarsi del prossimo? O forse nell’intrigo, tratto da un soggetto di Graham Greene, un giallo che non lascia un attimo di fiato, in cui uno scrittore americano, alcolista e sarcastico, indaga sulla misteriosa (e presunta) morte di un amico?
O forse nell’impenetrabile figura femminile, un’espatriata candidata a vivere il suo romanzo come eroina romantica, la cui ambiguità è pari solo al sospetto che il suo amore sia sincero, incarnata dalla splendida (Alida) Valli, figura paradigmatica di un cinema di confine, esule istriana e (ex) star di regime, diva scelta dal produttore David O. Selznick per impersonare un oscuro fascino europeo e futura vittima della cronaca nera nazionale?
O forse in Orson Welles, di cui tutti parlano e che appare improvvisamente dal buio assieme ad un gatto per i doveri contrattuali che lo legavano al mitico produttore Alexander Korda, e in un quarto d’ora lascia una traccia indimenticabile con battute rimaste nella memoria («In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù») e un’influenza evidente nella regia di Reed?
O forse proprio nella regia di Reed, che evidentemente guarda alle memorabili innovazioni fatte dal suo attore in Quarto potere, Lo straniero e La signora di Shangai, cioè il Welles teorico del decennio, e non solo nelle inquadrature sghembe, nelle immagini distorte, nei lunghi pianosequenza, ma anche nei temi dell’amicizia maschile, del tradimento, della moltiplicazione di una verità inafferrabili, perfino nella presenza simbolica di Joseph Cotten?
O forse nell’incredibile fotografia oscura, tenebrosa, angosciante di Robert Krasker? O forse nelle scenografie come mai funzionali all’intreccio, quasi come se questo giallo sia inscindibile dal tessuto cittadino in quel preciso momento storico? O forse nell’eclatante commento musicale di Anton Karas, ferocemente provocatorio nel suo calcolare tristezza e scherzo sulle note diffusa da una cetra, uno degli incontri più perfetti di musica ed immagini sul grande schermo?
Insomma, si potrebbe dire che Il terzo uomo confuta il famoso assunto di François Truffuat secondo cui l’espressione “cinema inglese” è una contraddizione in termini: andando oltremanica, esplorando le macerie morali di un continente al quale appartiene ma da cui è distante, Reed dimostra quanto sappia portare alta la bandiera di un cinema che per essere grande deve misurarsi con la complessità estetica, morale, politica. Non a caso, Truffaut l’amava molto. Tra i film più perfetti della Storia.
IL TERZO UOMO (THE THIRD MAN, G.B., 1949) di Carol Reed, con Joseph Cotten, Alida Valli, Orson Welles, Trevor Howard, Bernard Lee, Wilfrid Hyde.White. Noir. *****