Recensione: Dogman

DOGMAN (Italia-Francia, 2018) di Matteo Garrone, con Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi, Francesco Acquaroli, Alida Baldari Calabria, Giorgio Gobbi. Noir. ****

Periferia fradicia e sporca, caseggiati ammassati l’uno sull’altro, insegne colorate che incorniciano lo squallore nascosto nei compro-oro al ribasso, in modeste trattorie ultrapopolari, nelle sale gioco dove puntare i pochi soldi che conducono al fallimento. Matteo Garrone ha trovato ai confini di Castel Volturno la sua ipotesi di Magliana, il quartiere romano all’origine della vera storia di Dogman, quella – come sappiamo – del canaro che nel 1988 uccise un pugile criminale.

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Ancora una volta, la formazione artistica gli permette di pennellare un contesto sospeso tra realismo ed immaginazione con la ragionata audacia di chi sa dare densità melodrammatica ad uno sguardo documentaristico. Come in Reality, questa tensione si manifesta tutta nella sua capacità di esaltare scenografie in apparenza soltanto prese dalla realtà e invece sempre caratterizzate da una creatività tale da renderle spazi in bilico tra incubo tangibile e smarrimento onirico.

È suggestivo vedere in Dogman il germe di una fuga verso il western più cinico e spietato, con quei campi lunghi a catturare la vastità desolata, madida, asfissiante di una terra al di fuori della legge, dominata da Simone, una bestia feroce a bordo di una moto e disposta a tutto pur di pippare cocaina. Siccome è sempre interessante vedere quanto il cinema italiano sappia misurarsi con la cronaca nera al di là della didascalica ricostruzione degli eventi, non c’era forse regista più giusto per immaginare una storia così incredibile.

Riallacciandosi evidentemente alle atmosfere morbose ed inquietante de L’imbalsamatore – con cui condivide gli stessi, fedeli sceneggiatori: Ugo Chiti e Massimo Gaudioso – e senza la mediazione occulta del Vincenzo Cerami di Fattacci quanto piuttosto una certa adesione agli aspetti più neri e perversi de Il racconto dei racconti (le immersioni, il sangue, gli animali non più imbalsamati ma spettatori vivi), è come se Garrone stesse continuando a disegnare la sua ennesima ipotesi di favola.

Certo, è una favola tetra, angosciante, opprimente, densa di pochi cromatismi capaci di determinare un’idea di mondo precisa (non è questione di “bella la fotografia” perché il lavoro di Nicolaj Brüel è stupefacente), retta sull’archetipo della vendetta con implicazioni epiche se non spirituali in senso antifrastico, abitata da personaggi portati all’estremo, vestiti quasi sempre allo stesso modo, con delle facce tumefatte se non deformate.

In una dialettica esteticamente impressionante, la fisicità dell’inedito Marcello Fonte (in un ruolo pensato per, tra gli altri, Roberto Benigni) fa da contraltare a quella mostruosa di Edoardo Pesce descrivendo l’insopportabile insubordinazione del primo alimentata dal potere che quest’ultimo esercita sul più forte (è il suo pusher). Ed è quando la logica del sopruso fisico si ribalta che i corpi svelano insospettate atrocità.

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Attorno a loro c’è un coro di facce strepitose, in continuità beffarda col passato (Aniello Arena di Reality è il carabiniere) o proveniente dal recente filone borgataro (Francesco Acquaroli, Adamo Dionisi, Mirko Frezza), da mettere accanto alle statue create dal trucido fornitore (con i premonitori schizzi di sangue sui volti) e ai primi piani canini: e sono proprio loro – assieme alla figlioletta che capisce la verità oltre le ferite – gli unici a poter immaginare un mondo migliore, amaramente negato da un finale glaciale. E non basta uno schizzo d’acqua calda per riprendersi.

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