Recensione: La terra di Dio

LA TERRA DI DIO (GOD’S OWN COUNTRY, G.B., 2017) di Francis Lee, con Josh O’Connor, Alec Secareanu, Gemma Jones, Ian Hart. Mélo. *** ½

Ne è passato di tempo da Padre padrone, con l’indicibile rapporto sessuale tra uomini e pecore messo in scena per sottolineare la solitudine, l’isolamento, l’alienazione, l’arretramento di uomini costretti a fare i conti con l’osceno per sopravvivere alle esigenze della carne. Più tardi, lontano dalla Sardegna rurale, i cowboy di Brokeback Mountain hanno svelato i sottotesti espliciti di un genere virile in cui i legami sono troppo stretti per non essere intimi e meno casti di una fuga bromance.

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La terra di Dio, insomma, non arriva dal nulla, e per di più arriva dalla terra di Maurice, grande nume tutelare di quel recente filone sulla problematica scoperta dei corpi maschili – e dell’accettazione degli istinti non preventivati – a cui fanno parte, tra gli altri, Lo sconosciuto del lago, Weekend fino a Chiamami col tuo nome, da più parti tirato in ballo per spiegare umori e suggestioni del debutto di Francis Lee.

Naturalmente ci sono molte differenze con il romantico coming of age di Luca Guadagnino e, al di là del fatto che siano sempre due uomini i protagonisti, la sola grande somiglianza sta nel motivo grazie al quale si conoscono i predestinati all’amore. Georghe, infatti, è un lavoratore rumeno che arriva nella fattoria di Johnny su richiesta del padre, impedito poiché colpito da ictus. Come nel film di Guadagnino, benché in circostanze più elegiache, anche qui la figura paterna si fa deus ex machina del love affair del figlio.

Certo, questo contadino ruvido, severo, abbattuto non somiglia all’illuminato professore di Chiamami col tuo nome: ma, verso il finale da non palesare, Ian Hart svela una sensibilità commovente proprio perché inaspettata. E poi – per chiudere i parallelismi – se lì era una pesca a sporcare la pulizia e mettere in crisi l’armonia di giovani corpi puri nella calda estate, La terra di Dio pullula invece di fango, letame, bestie morte, corpi sporchi nelle stagioni più rigide.

Fondamentalmente represso, Johnny ha negoziato la sua permanenza nella fattoria con la possibilità di fuggire altrove, grazie al pretesto di aste e svaghi al pub, e consumare sesso occasionale, clandestino, occultato nei furgoni o nei bagni con ragazzi che non vuole conoscere, convinto che l’amore sia comunque fonte di malessere. Perciò, a suo modo, il film è ancora una volta un coming of age sull’amore che per essere tale deve essere anzitutto accolto senza paure.

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Lee ha la sapienza di non trattare il love affair nel modo più facile, cioè lasciando che il padre e la nonna si oppongano ai desideri del ragazzo. Al contrario, sottolinea come il privato di Johnny (mai esplicitato ma, in fondo, tacitamente conosciuto da tutti) sia meno vincolante rispetto alla religione del lavoro, trovando nello spazio agreste separato dal resto più il segno di una fragilità rispetto alla velocità del mondo fuori (le fattorie che smantellano, i ragazzi che partono per studiare fuori) che il luogo ostile dove tentare di conciliare sogni e bisogni.

Anzi, a livello geografico e sentimentale pare essere proprio la fattoria la culla ideale dell’amore tra due ragazzi di campagna simili benché stranieri, legati dal desiderio reciproco di completarsi, scoprirsi, imparare l’uno dall’altro l’esercizio dello stupore (Georghe è una presenza misteriosa, salvifica, che mette al mondo vite nuove e al contempo ha un forte componente erotica) o la tenerezza del perdono (grazie a Georghe, Johnny può imparare a fare pace con i suoi fantasmi e rinasce grazie alla sua capacità ostetrica). La terra di Dio è forse la versione costruttiva di Rester vertical.

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