Recensione: Solo: A Star Wars Story

SOLO: A STAR WARS STORY (U.S.A., 2018) di Ron Howard, con Alden Ehrenreich, Woody Harrelson, Emilia Clarke, Donald Glover, Thandie Newton, Paul Bettany, Phoebe Waller-Bridge, Jonas Suotamo. Fantascienza avventura. ** ½

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Col senno di poi, oltre le note polemiche e dopo i fantasmi di un flop annunciato, Solo: A Star Wars Story può essere letto come un caso di scuola sul delicato equilibrio su cui si mantiene questo tipo di operazione, costretta a bilanciare la portata epica di una saga iconica e le necessità capitalistiche di una Disney ormai egemonica, la volontà di rinnovare il parco autori del genere e la necessità di mantenere allacciati i fili col passato.

E poi: il fascino di un’epopea che – almeno fino ad un certo punto – non doveva il suo successo alla serializzazione portata all’estremo e la necessità industriale di una major chiamata a capitalizzare un grande e discusso affare, il tentativo di accogliere nel “club dei grandi” autori giovani e spesso così scapigliati da non rispondere alle direttive dall’alto e, di riflesso, il ricorso a coloro che giovani non sono più ma perlomeno assicurano la professionalità di chi è abituato a gestire rapporti con le strutture produttive.

Ecco, dunque, che Solo si staglia davvero quale il più clamoroso caso di scuola dopo gli interventi dell’esperto Tony Gilroy al Rogue One di Gareth Edwards e, fuori dalla galassia Disney e dentro l’affine – in questo senso – Marverl, l’allontanamento di Edgar Wright da Ant-Man, ma anche di Colin Trevorrow dal nuovo Jurassic World. Certo, quando l’operazione va a buon fine, non mancano perplessità e dubbi, come è capitato al Rian Johnson de Gli ultimi Jedi.

Sappiamo che i registi originali di Solo erano Phil Lord e Christopher Miller, licenziati perché accusati di non prendere sul serio lo spin off dedicato al personaggio più brillante ed ironico della saga. E quindi ecco Ron Howard, ex ragazzo prodigio diventato ormai affidabile signore buono per tutte le stagioni, destinato all’ingrato compito di annullare il misterioso lavoro dei giovani registi, farlo rimpiangere come tutte le occasioni mancate e mettere insieme i pezzi di un progetto da salvare.

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Detto ciò, è indubbio che Howard sappia benissimo come muoversi nel perimetro di una storia che è un tassello interessante quanto non indispensabile per i fan ortodossi e un pretesto ozioso per gli spettatori più smaliziati. Com’è ormai tipico e quasi ineludibile in questo filone, lascia che la patina vintage costeggi la nostalgia di un ritorno alle atmosfere di una sci-fi più umanista ed artigianali, prendendo non a caso il personaggio più svincolato da logiche extraterrestri, un avventuriero senza tempo catapultato in una galassia lontana lontana.

È una chiara scelta di politica aziendale che si riverbera in una precisa scelta formale: alla nostalgia filtrata dallo sguardo più anarchico di giovani registi, che hanno misurato le loro visioni ai limiti del low budget, si preferisce la rassicurante post-nostalgia di chi è cresciuto nei pressi della New Hollywood. La vecchia saga è vista, così, sia come un classico del patrimonio da guardare con rispettosa malinconia sia come un modello al quale riferirsi sia come un moloch tutto sommato intoccabile.

Se c’è una cosa, infatti, che sembra mancare in Solo è l’ironia. Ci sono ammiccamenti, (auto)citazioni, gags, buffi momenti stranianti, Donald Glover che gigioneggia per assicurarsi un posto nella mitologia. Ma se per ironia intendiamo quella dialettica tra scetticismo e dissimulazione, possiamo dire che in Solo sussistono più che altro il timore di non assomigliare troppo alla scanzonata anarchia di Guardiani della galassia e la richiesta di una purezza d’altri tempi.

Ed è un elemento che sembra mancare per il semplice motivo che se Rogue One partiva da zero e poteva permettersi il lusso di fiancheggiare l’epica, qui scaviamo nel passato del personaggio più beffardo, la splendida canaglia che pare essere impresa troppo ardua per il pur bravo Alden Ehrenreich (bello ma senza il sex appeal di Ford), per la terza volta chiamato a misurarsi col titanismo del cinema dopo l’autoanalisi di Ave, Cesare! e l’esame di maturità dato con Warren Beatty in L’eccezione alla regola.

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Non è questione di casting sbagliato. Pensiamo a Chris Pratt, più volte tirato in ballo come erede di Han Solo (e di Harrison Ford?) ma così intelligente da plasmare sul suo corpo un nuovo modello divistico che evoca la quintessenza di Ford così come Ford stesso evocava, per esempio, Humprey Bogart. Il problema di Ehrenreich è che sembra troppo preoccupato del confronto e solo in parte riesce a dare valore a quella giovane età che gli potrebbe condonare il mite carisma.

Sarebbe però ingeneroso addossare sul solo protagonista le esitazioni di fronte ad un film che tuttavia ha la saggezza di rinunciare all’afflato epico per ripensare l’avventura per via western tra scontri e rapine, preferendo un sapiente e classico intrattenimento al dovere di restare nella Storia. E, alla fine, se la vediamo come un’operazione spericolata e comunque destinata a infinite polemiche, è un piacere vedere all’opera Howard (lo diciamo? il sottovalutato Howard) e sua maestà Lawrence Kasdan, che con suo figlio Jon ha scritto una sceneggiatura di solida stabilità.

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