Sembra incredibile, considerando che parliamo di uno dei più grandi autori di sempre, ma anche le più complete retrospettive su Ingmar Bergman hanno sempre avuto un buco. Capita che alcuni maestri pretendano di condannare all’oblio certi lavori nei cui confronti covavano qualcosa di simile alla vergogna, pensiamo a Stanley Kubrick e al suo esordio o a Jerry Lewis e al suo tuttora blindato film sul nazismo. Naturalmente tali atteggiamenti accrescono la curiosità dei cinefili.
Il buco di Bergman si chiama Ciò non accadrebbe qui e, dieci anni dopo la sua morte, si può finalmente aggirare l’antico veto – di rado infranto con il regista in vita – e capire il motivo di una così strenua ostinazione. Senza girarci attorno: non si tratta di un capolavoro né tantomeno di una delle cose migliori di Bergman, eppure all’interno della sua opera assume una dimensione quasi decisiva.
Dopo questo incidente di percorso, Bergman affilerà una serie composta da quelli che sono universalmente riconosciuti quali classici o capolavori, capendo quanto la sua sensibilità fosse lontana da un lavoro del genere. Che è esattamente “genere”: una spy story – sì, è difficile crederlo – ambientata a Stoccolma sugli scontri tra i servizi segreti e la comunità esule di una nazione sotto dittatura molto simile all’Unione Sovietica.
Nel cinema americano tra gli anni quaranta e cinquanta abbondano film di propaganda anticomunista, diretta emanazione del maccartismo e del tutto inseriti nelle dinamiche della Guerra fredda. In Europa la situazione è un po’ più complessa e ogni nazione fa ciò che può e soprattutto vuole per impegnarsi nella denuncia, esplicita o meno, contro il totalitarismo sovietico.
Sorprende che Bergman si sia imbarcato in un’operazione del genere, in cui il cattivo si chiama Atka Natas (leggete al contrario il cognome). Non tanto per il contenuto anticomunista quanto per le forme adottate. Interpretato da attori baltici proprio per un’esigenza realistica e “sociale”, Ciò non accadrebbe qui (titolo strano, tra la fantapolitica, il monito, il filogovernativismo) è tuttavia palesemente un prodotto para-americano, un thriller cupo e urbano, nel suo scegliere uno spettacolo a metà tra l’action e il noir come chiave per trasmettere un messaggio politico.
Nel vederlo oggi, appare evidente che l’imbarazzo di Bergman fosse più che altro nell’adozione di uno stile che non gli appartiene: non è questione tecnica, perché – detto brutalmente – sa dove mettere la macchina da presa, come dimostra nella determinante, distonica, allucinata sequenza della riunione degli esuli in cui c’è lo svelamento mentre nel tessuto sonoro e parzialmente anche nel contesto visive si percepisce un cartone di Paperino.
Sembra che non ci sia una reale corrispondenza tra la dimensione perturbante di una storia fatta di segreti, bugie e rivelazioni e lo sguardo indecifrabile di un regista a disagio con il calibrare il bisogno di un approccio umorista, l’angoscia che taglia l’atmosfera inquietante con il senso di una gravosa minaccia, la tensione incalzante di un noir metropolitano in cui la città è raccontata con raro disprezzo (i cittadini sono indifferenti, paurosi, perfino stupidi).
Apoteosi di questa indecifrabilità è l’assurda sequenza in cui l’agente fa irruzione nella casa della profuga, che sembra addirittura una parodia per l’incredibile scambio di battute, la semplicità con la quale si scontrano gli uomini rubandosi a vicenda la pistola ed aggredendosi senza la minima plausibilità. È il segno di un malessere che rende Ciò non accadrebbe qui un film davvero maledetto che, comunque sia, merita una visione consapevole per capirne limiti e meriti.
CIÒ NON ACCADREBBE QUI (SÅNT HÄNDER INTE HÄR, Svezia, 1950) di Ingmar Bergman, con Signe Hasso, Alf Kjellin, Ulf Palme, Ragnar Klange, Rudolf Lipp, Edman Kuus. Spionaggio. ** ½