Havana | Sydney Pollack (1990)

Potremmo chiamarla “sindrome Casablanca”, assumendo il caposaldo di Michael Curtiz quale epitome di una tendenza: quella che prende i registi blasonati quando vogliono replicare l’irripetibile, costeggiare la classicità con gli strumenti contemporanei, ambire ad un’iconografia che sia soprattutto iconica, costruire una mitologia da longseller. Qui abbiamo perfino il nome della città nel titolo a determinare limiti e confini di un mondo preciso.

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Havana arriva ben cinque anni dopo il trionfo de La mia Africa e ha tutti i crismi dell’operazione titanica. Come in Casablanca, c’è un decisivo contesto storico in cui muovere le pedine di un triangolo amoroso costituito dalle tre figure archetipiche. Siamo nella Cuba del 1958, poco prima che Fidel Castro prenda il potere, e ci sono un avventuriero (americano) senza particolari ideali, una bella donna da conquistare, un attivista della rivoluzione che incidentalmente è suo marito – ma anche un bel comparto di comprimari: dall’irresistibile Alan Arkin al sordido Tomás Milian passando per il cammeone di Richard Farnsworth.

Talmente svelato e plateale il riferimento al capolavoro che sembra quasi pleonastico sottolinearlo. Eppure il problema di Havana è tutto qui, alla fonte. Dimentichiamo che il modello fu girato in piena guerra, con tutto il carico emotivo che traspare tuttora in ogni fotogramma, e ragioniamo nei termini di quel neoclassicismo new-hollywoodiano di cui Sydney Pollack è supremo alfiere.

Come La mia Africa, Havana è un tripudio di immagini cinematografiche che, nell’epoca in cui il film pensato per il grande schermo riduceva il proprio immaginario in un piccolo schermo domestico, si sforza coraggiosamente di ripensare un “gigantismo” che non sia appannaggio dei generi fantastici. Pollack (anche produttore) misura il mélo all’altezza dell’avventura, nei confini esotici di una narrazione storica la cui lunghezza (due ore e mezza) è pari alla densità tematica, all’impatto estetico, al potere evocativo.

Per farlo ha bisogno di cavalcare quel che resta del divismo, ricorrendo anzitutto al feticcio Robert Redford: già ultracinquantenne ma ancora biondissimo e tutto sommato bello come sempre (generosamente fotografato), in continuità con Il migliore in cui doveva dimostrare qualche lustro in meno, veicola un carisma troppo kennedyano per essere davvero sgualcito, troppo impeccabile per trasmettere il senso di una vita movimentata; e comunque in qualche modo funziona.

Il problema è nella fragile chimica con la fulgida e più giovane Lena Olin, purtroppo costretta ad essere una replicante di Ingrid Bergman, nonostante lo spettacolare scambio di battute che suggella il loro amore al di là del bene e del male («Mi aspettavi?» «Da una vita»: ma è un “prestito” da C’era una volta in America), del tutto incredibile nell’economia narrativa: bastano davvero gli occhi languidi di Bobby per far lasciare ad un’attivista clandestina il marito combattente (alias Raul Juliá, non accreditato perché negatogli il nome prima del titolo)?

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A differenza del precedente film, non solo manca l’alchimia tra i protagonisti (che, è bene ricordarlo, incarnavano due amanti non giovanissimi, in terra straniera e già sublimati dalla rielaborazione romanzesca dell’esperienza personale di Karen Blixen) ma latita anche un afflato romantico che prescinda la coppia e pervada l’intero sistema: più patinato che elegante, nonostante la sfavillante fotografia di Ozen Roizman, però ben musicato da Dave Grusin.

HAVANA (U.S.A., 1990) di Sydney Pollack, con Robert Redford, Lena Olin, Raul Juliá, Alan Arkin, Tomás Milian, Richard Farnsworth, Tony Plana, Daniel Davis, Lise Cutter, Mark Rydell. Avventura sentimentale. **

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