LUCKY (U.S.A., 2017) di John Carroll Lynch, con Harry Dean Stanton, David Lynch, Ron Livingston, Ed Begley Jr., Tom Skerritt, Beth Grant. Drammatico. *** ½
Esiste un filone del cinema americano, piuttosto florido, che mette al centro della scena un attore di lungo corso giunto all’ultima stagione della vita, finalmente protagonista di una storia non necessariamente crepuscolare ma comunque legata alla coscienza della fine, spesso ambientata nell’America profonda. Pensiamo a Richard Farnsworth in Una storia vera e teniamolo a mente, e intanto cerchiamo di orientarci nel catalogo.
Che è fatto di eterni comprimari, seconde file di lusso, caratteristi rigenerati o divi all’ultimo spettacolo: da Peter O’Toole di Venus a Bruce Dern in Nebraska passando per Lily Tomlin in Grandma e Sam Elliott in The Hero fino all’imminente Robert Redford nell’annunciato commiato The Old Man & The Gun. Film liberi e indipendenti, pensati soprattutto come omaggi alla professionalità di attori arrivati alla massima maturità.
Lucky fa parte di questo gruppo ed esce in Italia quasi un anno dopo la morte della sua star, il novantenne Harry Dean Stanton. Icona del cinema americano, feticcio di David Lynch, che lo volle, già anziano, anche nel memorabile incontro finale di Una storia vera. Lo stesso autore compare qui come amico eccentrico del protagonista: un evidente, sentito, amorevole onore riservato all’antico sodale, con cui si scambia degli sguardi di eloquente fiducia.
Insomma, Lucky, anzitutto, non è solo il canto del cigno di un attore dalla carriera lunga e fertile, ma anche la grande occasione di un caratterista raramente protagonista. Capitò in Paris, Texas, dove era l’indimenticabile padre alla ricerca, e proprio al film di Wim Wenders guarda John Carroll Lynch nell’evocare, attraverso la terra desolata della provincia, il quadro entro cui lasciar muovere il suo eroe.
Sin dalle prime immagini, capiamo quanta fiducia ripone Stanton nel suo regista, anch’egli attore: offre il suo corpo inesorabilmente segnato dal tempo al suo occhio pudico, si presta ad interpretare una consolidata routine con incredibile naturalezza, fuma come un dannato, sciorina sentenze con l’olimpica irrequietezza di chi ha vissuto senza cintura di sicurezza… e poi cade. Perché?
Lucky è la storia di un corpo che si scopre fragile, l’involucro di un uomo che non crede all’anima ma fa di tutto per contraddirsi, la storia paradossale della testuggine di David Lynch che scappa e non si lascia toccare dalla tragedia (ah!). È un apologo sulla rivelazione – scoperta in modo perfino assurdo – che la morte è dietro l’angolo non per nostra scelta ma perché è il tempo a determinarne il fato. Un racconto semplice, umile, morale senza mai moraleggiare.
Va da sé che si tratta di un film incardinato su un personaggio e di conseguenza sul suo attore (impossibile pensarne un altro: Lucky è uno studio su Stanton, la sua recitazione, il suo passato), impegnato in una narrazione fondata sugli incontri, sui dialoghi seduti al bancone o a tavola o sul lettino del medico, su esistenze che attraverso le parole provano a riconoscersi o semplicemente a farsi compagnia nel lungo viaggio verso la notte.
Impossibile non restare affascinati di fronte all’incontro con l’ex marine Tom Skerritt, impossibile non commuoversi ascoltando la sua timida ma fiera pronuncia ispanica quando canta alla festa del ragazzino, impossibile non piangere al cospetto di quello struggente finale che guarda in macchina per rassicurarci, dirci che, tutto sommato, è stata una fortuna aver passato del tempo insieme.
[…] Lucky di John Carroll Lynch. Voto: 8 […]
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