Venezia 75 | Recensione: Il primo uomo

IL PRIMO UOMO (FIRST MAN, U.S.A., 2018) di Damien Chazelle, con Ryan Gosling, Claire Foy, Kyle Chandler, Jason Clarke, Corey Stoll, Pablo Schreiber, Ciarán Hinds, Brian d’Arcy James. Biografico drammatico. ***

Sembra quasi una tassa da pagare, o per meglio dire un passaggio consueto: dopo aver vinto l’Oscar, il regista di turno deve alzare l’asticella, misurarsi con qualcosa di grande per poter convalidare l’inappuntabile premio appena ricevuto. Damien Chazelle è anche il più giovane destinatario della statuetta come miglior regista e Il primo uomo, il suo quarto film, è anche il primo di cui non ha scritto la sceneggiatura.

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Ci ha pensato Josh Singer, Oscar per Il caso Spotlight e autore di The Post di Steven Spielberg, qui peraltro impegnato come produttore esecutivo. È una benedizione capitale per il regista, e non sbaglia chi ha rintracciato nel film gli echi della filosofia spielberghiana: il senso dell’impresa per spingere la conoscenza oltre il già noto, l’incanalamento dello spirito avventuroso in uno spazio che è l’immagine di un evento nazionale, mondiale, eterno.

Il biopic, questo non-genere che può essere tutto ciò che un autore vuole, è l’occasione per una riflessione sul corpo tipica del cinema di Chazelle. Se non fosse troppo azzardato, potremmo dire che si tratti addirittura di un MacGuffin: in superficie si parla degli anni sessanta di Neil Armstrong, primo uomo a mettere piede sul suolo lunare; in profondità, un claustrofobico, angosciante, analogico studio sui corpi sacrificati.

Sin dalle prime scene, Il primo uomo si preannuncia una lunga cerimonia degli addii («siamo abituati ai funerale» dice la moglie, una superlativa Claire Foy). In un certo senso, Armstrong è il primo uomo a non morire per portare a termine la missione – e tornare a casa: l’homecoming, lo sappiamo, è un’ossessione del cinema americano del terzo millennio. Il lutto è privato, tocca il cuore perché a lasciarci è la figlioletta del protagonista. La sua assenza è la presenza più struggente del film, come si evince dagli occhi liquidi del tormentato Ryan Gosling.

Nella partitura verso l’ignoto inframmezzata da ricordi ossessivi, il ricordo della bambina è il cuore del racconto, perché rivela il presagio funesto di un’avventura senza precedenti. In questo aspetto, Chazelle si dimostra cantore di un sensibile umanesimo: mai un sensazionalismo, mai una voce fuori dal coro sommesso del dolore atteso, mai un occhiolino facile. Con la camera a mano si scaglia contro l’horror vacui del dolore, della solitudine, della tristezza per riempirlo di qualcosa per cui valga la pena gettare il cuore oltre l’atmosfera.

La luna compare spesso, facendosi emblema di un film incardinato anche sul concetto di attesa. È un’ossessione totale per una nazione affascinata da nuove prospettive di dominio contro il progresso sovietico, è disseminata in più occasioni e in varie forme: in scala sulla lavagna, stilizzata nei disegni infantili, nel cielo diurno verso il tardo pomeriggio, in quello ovviamente osservato di notte. Nonché scenario di radiocronache, programma politico, ambizione mai appagata.

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Quando, finalmente, si arriva alla luna, Chazelle non può fare altro che ricrearla secondo lo sguardo dell’americano medio. Va detto che, con un certo coraggio, mette in scena un evento da sempre contestato dal complottismo, oggetto di documentari controinformativi e di una famosa leggenda che vorrebbe Stanley Kubrick autore del finto allunaggio. Chazelle, invece, sposando l’essenzialità di uno sguardo riverberato nel vetro deformante del casco di Armstrong, ci fa vedere una luna familiare, un’immagine simbolica, l’atto finale del viaggio.

Così capiamo ancora di più che l’interesse di Chazelle non è il biopic, ma la possibilità di trovare dentro la stra-ordinaria biografia di Armstrong le coordinate per un’esperienza immersiva veicolata dalla malinconica fotografia di Linus Sandgreen e da un tessuto sonoro ipnotico che intende trasmettere l’isolamento, l’alienazione, il pericolo. Chazelle scompagina le attese del suo pubblico, problematizza la nostalgia per rendere il mistero di un volo nell’ignoto in un’epoca funesta quanto esaltante.

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