THE MOUNTAIN (U.S.A., 2018) di Rick Alverson, con Tye Sheridan, Jeff Goldblum, Hannah Gross, Denis Lavant, Udo Kier. Drammatico. **
Questa non è una montagna: è un’immagine. Non a caso, nei pressi dell’inizio, appare una pipa: questa non è una pipa. Un tempo è stata del padre di Andy, ora che è morto penzola dalle labbra del medico che aveva in cura sua madre. È un gioco di simboli, allusioni, figure che ne nascondono altre per rivelare misteri indecifrabili. Un cul de sac, forse, la masturbazione mentale di un regista alla prova del nove.
Rick Alverson era la grande scommessa del concorso di Venezia 75. I suoi film hanno girato solo nei circuiti indipendenti e veicolano un umorismo atipico e singolare. Cosa che emerge solo a voler scalando volenterosamente The Mountain, un faticoso ed inquietante grottesco imprigionato dentro un claustrofobico 4:3, tanto soffocante quanto esaltato dai colori desaturati ed attenuati di Lorenzo Hagerman.
Negli spazi troppo angusti di un quadro senza via d’uscita, geometricamente in fuga verso angoli che limitano la visione entro uno schema rigido ed opprimente, Alverson modula su un unico registro l’allucinazione asfissiante senza sfumature, dalle gradazioni spietatamente inospitali, scegliendo un tema – la lobotomia – che pare solo l’occasione per assecondare il tono catatonico di una narrazione chiusa.
Lo scenario dell’America degli anni cinquanta ha una patina superficialmente vintage che invece rivela la catabasi in un’epoca opprimente, il cui décor è solo l’espressione di un perbenismo che nasconde i segreti e i terrori di una nazione perversa, ipocrita, moralista, mentre la radio trasmette canzoni che nel ricordare i bei tempi andati ne negano lo statuto sereno.
Un film contro il cinema borghese? No, un’allucinazione ora estenuante ora sadicamente magnetica, mal sostenuta dalla interpretazione troppo programmaticamente lobotomizzata di Tye Sheridan e sospesa tra il sardonico straniamento del pazzesco Jeff Goldblum e l’inconcepibile ed insopportabile istrionismo a briglie sciolte di Denis Lavant.