Venezia 75 | Recensione: La favorita (The Favourite)

LA FAVORITA (THE FAVOURITE, Irlanda-G.B.-U.S.A., 2018) di Yorgos Lanthimos, con Olivia Colman, Emma Stone, Rachel Weisz, Nicholas Hoult, Joe Alwyn, Mark Gatiss. Storico commedia drammatico. *** ½

Dopo anni dedicati a formalizzare il suo stile catatonico ed eccentrico, sfociando non di rado in un manierismo davvero irritante, Yorgos Lanthimos, tra i più celebrati registi della sua generazione, imbrocca finalmente un film come dio comanda. E la ragione è semplice tanto più bizzarra: non l’ha scritto lui. La favorita, infatti, si basa su una sceneggiatura di Deborah Davis e Tony McNamara ed era difficile ricavarne qualcosa di brutto.

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Ogni tanto l’autore si abbandona alle cifre tipiche del suo cinema, specialmente quando i grandangoli sulla cucina deformano lo spazio quasi a creare una bolla tale da rendere il castello un luogo escluso dal mondo e lontano dal popolo. Che, appunto, non appare mai, se non nella servitù profana e perfida e nell’imprevista puntata al bordello. Se proprio vogliamo trarne una riflessione, potremmo dire che, in quanto a perversità, anche i popolani non scherzano.

Perché, dopotutto, La favorita è una commedia di corte spudorata e travolgente, un sanguinario e ridanciano balletto che instilla tutto il cinismo di Eva contro Eva in uno schema spesso imbalsamato nel genere consolidato del period drama sulla monarchia inglese. Anche se stiamo lontani dall’uno e dall’altro, diciamo che c’è mpiù il sentore selvatico de Il leone d’inverno che la soap di lusso alla Anna dei mille giorni.

Forse Lanthimos era il regista più giusto per questo dramma osceno sulla regina Anna, gottosa ed ingorda di sesso, che intreccia da sempre una relazione morbosa con la favorita Sarah Churchill e si lascia sedurre dalla cuginetta di quest’ultima, la dama declassata Abigail Masham. Ma se è condivisibile l’idea che il suo sguardo sia confacente al tema, è pur vero che si adatta al punto di farsi perfino addomesticare dal travolgente triangolo tra sesso e potere.

Un trionfo delle donne, che gestiscono tutto con cinismo e risolutezza, mentre gli uomini sono in guerra o credono di fare politica con irreprensibile debolezza ai limiti della subalternità e dell’idiozia. La suddivisione in capitoli, intitolati con battute emblematiche dei vari segmenti, sta lì a significare una struttura programmaticamente romanzesca, in cui la realtà è palinsesto di un discorso fortemente ancorato alla sua tesi: una parabola satirica su invidia e dolore dominata dalle donne.

Nessuna di esse dichiara il proprio orientamento sessuale: c’è una fluidità che solo comodamente chiamiamo bisessuale, in cui l’esercizio del sesso con i maschi è derubricato ad azione per procreare (invano, nel caso della povera Anna, che ha fallito diciassette gravidanze), per consolidare una posizione sociale (il buon matrimonio di Sarah con un pezzo grosso dell’esercito), per assoggettare i maschi (la memorabile sega che Abigail fa al marito mentre prepara la rappresaglia contro Sarah).

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Naturalmente è un film in gloria delle sue attrici. Sebbene Emma Stone e Rachel Weisz siano oltremodo brave e riescano a trasmettere meravigliosamente il disprezzo reciproco (gli incontri quando vanno a sparare agli uccelli), il film appartiene ad Olivia Colman, strepitosa nell’impersonare con pietà una monarca infantile, sottomessa, logorata, sofferente, gelosa, romantica, depressa.

Una maschera vera e propria, enfatizzata dal trucco eccessivo che la fa somigliare ad un tasso (Weisz dixit), intrappolata in abiti vistosi e pesanti, che avvalora la tesi di un film in maschera, improvvisamente scopertosi falso musical per la convergenza di coreografie interne e ideali. Un carnevale nero, purtroppo banalizzato dal finale con le immagini sovrapposte di donne e bestie che sembra la zampata di un regista fin lì diligente e domato in nome dell’ambizione.

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