LA BALLATA DI BUSTER SCRUGGS (THE BALLAD OF BUSTER SCRUGGS, U.S.A., 2018) di Joel ed Ethan Coen, con Tim Blake Nelson, James Franco, Liam Neeson, Harry Melling, Tom Waits, Zoe Kazan, Bill Heck, Grainger Hines, Tyne Daly, Brendan Gleeson, Jonjo O’Neill, Saul Rubinek, Chelcie Ross. Western. ***
…and other stories, come si legge nei titoli di testa. Come in molte raccolte di racconti, il primo – o quello più emblematico – dà il nome al volume. Anche questa è un’antologia, una raccolta di episodi che originariamente non era stata pensata per una visione complessiva. Per cavalcare l’ingaggio dei fratelli Coen, Netflix, con l’approvazione dei registi, ha deciso di unire i frammenti in un film unico, presentandola nell’edizione della Mostra forse più importante per ragionare su cosa sia oggi un film.
Un film è una (ex) antologia di sei episodi per una piattaforma digitale? I Coen non si nascondono dietro un dito. Lo stesso montaggio risponde a questa domanda: non cambia la natura del progetto, cambia il modo di fruirne. Venezia sceglie così di sperimentare un breve binge watching d’autore (e che autori), proponendo un tipo di film tanto anacronistico quanto molto contemporaneo.
Perché se è vero che il film ad episodi è l’esempio di un cinema antico, nato all’epoca per l’esigenza di unire il maggior numero di registi ed attori prestigiosi in un’unica produzione fatta di segmenti più o meno coerenti, oggi esso si è adattato alle esigenze della serialità. Sei cortometraggi con cui i Coen danno la loro versione in miniatura del concetto di “serie antologica”: sei storie che forse sono solo folgoranti spunti, che non reggono la lunga durata, ma che al contempo potrebbero benissimo essere espanse e dilatate in stagioni vere e proprie.
Accanto alla questione produttivo/distributiva, i Coen continuano il loro percorso nel western dopo Non è un paese per vecchi e Il grinta, offrendo del genere la loro idea smitizzata e allo stesso tempo suggestionata dal mito. I sei frammenti sono sfacciatamente ispirati a film del passato, annunciano l’ipotesi di qualcosa di più lungo ma ne negano dapprincipio la possibilità di andare al di là della novella aneddotica, raccontano storie già viste, sentite, introiettate. Puro postmoderno.
Non solo. I Coen sanno perfettamente di essere un genere a sé stante, sono consapevoli che qualunque genere affrontino la loro cifra s’impone quale unica vera chiave di lettura. Ne La ballata di Buster Scruggs c’è tutta la loro poetica diversamente declinata, dall’esilarante fuorilegge canterino al cinico sfruttatore del freak passando per l’anziano cercatore d’oro, il cowboy condannato a morte, la diligenza e la carovana verso l’ignoto.
Mettendo in scena i racconti scritti in venticinque anni, i fratelli approdano ad una coscienza della fine del tutto coerente con la loro ultima produzione. Non c’è niente di nostalgico al di là dell’esperienza degli spettatori un tempo giovano, né c’è alcun afflato lirico nel ripensare il testo (il genere) fondativo di una nazione senza il vizio della memoria. Come si evince da ogni finale, struggente o angosciante che sia, c’è solo un unico, grande spettro: ed è la morte, così puntuale ed insinuante. Dopo Ave, Cesare!, i Coen continuano ad officiare un rito funebre.