Venezia 75 | Recensione: Charlie Says

CHARLIE SAYS (U.S.A., 2018) di Mary Harron, con Matt Smith, Suki Waterhouse, Hannah Murray, Merritt Weaver, Marianne Rendón, Kauli Carter, Chace Crwaford. Biografico drammatico. ** ½

Il Charlie del titolo è proprio lui, quel Charlie Manson che si ritrova ora al centro di un film che dapprincipio si presenta più ortodosso rispetto all’imminente lavoro sul tema di Quentin Tarantino. Più di lui, ad essere protagoniste sono le parole che dice, recepite dalle sue adepte con cieca osservanza. Finite anni dopo in carcere, tre ragazze della setta si confrontano con una ricercatrice che vuole metterle di fronte alle loro responsabilità.

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Nel solo del suo film più famoso, il cult American Psycho, Mary Harron torna ad affrontare un soggetto criminale, scegliendo quello forse più decisivo per capire un passaggio tra due epoche, nella stagione più lisergica e indisciplinata della nazione. Più che un biopic, vuole tracciare più che altro uno spaccato antropologico su una delle più atroci american crime story, senza mai sfociare davvero nel territorio più insidioso ma forse meno scontato di un’american horror story.

Ci troviamo, insomma, nel crinale tra una corretta rievocazione di una storiaccia nera e un tentativo di sperimentare una riflessione più approfondita sul personaggio attraverso la lettura alterata che di lui compiono le ragazze. Si dipana in episodi, narrati in flashback, che si riferiscono alle diverse ricognizioni degli eventi dalle tre seguaci, mentre, nel presente, la ricercatrice cerca di accompagnarle verso la consapevolezza.

Se il confronto tra la studiosa e le ragazze è interessante per le dinamiche che portano l’una ad uno shock emotivo nel quale si riverbera l’incomprensione dell’intera nazione e le altre sono chiamate ad una faticosa quanto necessaria espiazione, è meno convincente la ricostruzione storica, vagamente posticcia, come il poco credibile trucco barbuto di Matt Smith.

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Ciononostante, lo stesso attore è comunque molto efficace nel muoversi dentro la fragilità narrativa (c’è qualche buco di troppo) con cui vengono raccontati il delirio d’onnipotenza e l’ossessione di Manson, un’incarnazione del male che trova nel momento in cui si esibisce di fronte ad un produttore musicale la chiave per decifrare allegoricamente la ferocia contro la società del benessere, rea di non aver capito il suo presunto valore artistico.

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