THE SISTERS BROTHERS (Francia, 2018) di Jacques Audiard, con John C. Reilly, Joaquin Phoenix, Jake Gyllenhaal, Riz Ahmed, Jóhannes Haukur Jóhannesson, Rebecca Root, Ian Reddington. Western. ***
Naturalmente The Sisters Brothers finisce per essere letto in parallelo con l’altro western in concorso, La ballata di Buster Scruggs. In entrambi i casi parliamo di operazioni che avvengono va da sé col senno di poi, fuori dai contesti produttivi e industriali nei quali si affermò il genere più americano possibile, ma anche nella coscienza del crepuscolo di un’epoca irripetibile.
Come i Coen, anche Jacques Audiard si muove nel terreno del revisionismo, per quanto non nella prospettiva scopertamente postmoderna dei fratelli. Il regista francese rinegozia il portato mitico del genere con un pubblico disposto ad accettare la messa in discussione dei simboli, dei riti, dei miti di un universo ormai da molti anni oggetto di nostalgico ripensamento con la consapevolezza di non poterne far altro che replicare criticamente i topos.
Adattando il romanzo omonimo di Patrick deWitt, Audiard trova in Europa la sua idea di America filtrandola attraverso uno sguardo istintivamente volto alla ricerca delle origini, intuendo quanto ogni mitologia abbia bisogno della fratellanza sulla quale edificare la narrazione di una nazione. Per risalire alla fonte, prende due pistoleri mercenari che devono trovare un cercatore d’oro dalle competenze chimiche.
A poco a poco, dopo un inizio influenzato da un atteggiamento un po’ intellettualistico e dominato da un apparato di immagini fin troppo simboliche, il film assume un carattere picaresco adatto sia alla politica smitizzante e all’ironia insita alla parodia del testo originario, qui diluita secondo una temperie realista confacente al tipico approccio di un regista che ama stare addosso all’avventura dei corpi negli spazi che riflettono le ferite interiori.
Audiard guarda al western revisionista degli anni sessanta, trova la cesura, determinante per il tono e la fluidità narrativa, nella scoperta del mare, forse suggestionata da un brivido proveniente da I due volti della vendetta di Marlon Brando, altro film incentrato su un rapporto binomiale, benché intessuto di una conflittualità problematica lontana dal legame stretto e fiducioso dei due fratelli.
Il cui cognome è chiaramente la spia di una riflessione sul gender tutt’altro che banale, addirittura esplosiva quando, nel frammento finale, il moto circolare dell’homecoming – una delle chiavi di tutto il cinema americano del terzo millennio – si accorda ad una sensibilità che pone al centro il femminile come epicentro della solidità di un rapporto, presenza determinante quanto nascosta di un legame ideale.
Tra momenti trucidi e puntate beffarde, Audiard orchestra una godibile e sofisticata bizzarria che probabilmente piace più per ciò che rappresenta che per il suo effettivo esito, e individua nelle facce dei suoi quattro attori i volti perfetti per definire i confini di una terra senza frontiere: John C. Reilly è quello che meglio indovina l’equilibrio tra ironia e tensione, mentre Riz Ahmed esalta la sua straniante dimensione apolide. Finalmente Alexandre Desplat imbrocca una colonna sonora diversa dal solito, dolce e malinconica.